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AdVersuS, Año IV,- Nº 8-9, abril-agosto 2007
ISSN: 1669-7588
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Intelectuales: Nación, Religión y Política
ODIO A LOS INDIFERENTES

Antonio Gramsci
Traducción: Hugo R. Mancuso

 

 

Odio a los indiferentes. Creo que vivir quiere decir tomar partido. Quien verdaderamente vive, no puede dejar de ser ciudadano y partisano. La indiferencia y la abulia son parasitismo, son cobardía, no vida. Por eso odio a los indiferentes.

La indiferencia es el peso muerto de la historia. La indiferencia opera potentemente en la historia. Opera pasivamente, pero opera. Es la fatalidad; aquello con que no se puede contar. Tuerce programas, y arruina los planes mejor concebidos. Es la materia bruta desbaratadora de la inteligencia. Lo que sucede, el mal que se abate sobre todos, acontece porque la masa de los hombres abdica de su voluntad, permite la promulgación de leyes, que sólo la revuelta podrá derogar; consiente el acceso al poder de hombres, que sólo un amotinamiento conseguirá luego derrocar. La masa ignora por despreocupación; y entonces parece cosa de la fatalidad que todo y a todos atropella: al que consiente, lo mismo que al que disiente, al que sabía, lo mismo que al que no sabía, al activo, lo mismo que al indiferente. Algunos lloriquean piadosamente, otros blasfeman obscenamente, pero nadie o muy pocos se preguntan: ¿si hubiera tratado de hacer valer mi voluntad, habría pasado lo que ha pasado?

Odio a los indiferentes también por esto: porque me fastidia su lloriqueo de eternos inocentes. Pido cuentas a cada uno de ellos: cómo han acometido la tarea que la vida les ha puesto y les pone diariamente, qué han hecho, y especialmente, qué no han hecho. Y me siento en el derecho de ser inexorable y en la obligación de no derrochar mi piedad, de no compartir con ellos mis lágrimas.

Soy partidista, estoy vivo, siento ya en la conciencia de los de mi parte el pulso de la actividad de la ciudad futura que los de mi parte están construyendo. Y en ella, la cadena social no gravita sobre unos pocos; nada de cuanto en ella sucede es por acaso, ni producto de la fatalidad, sino obra inteligente de los ciudadanos. Nadie en ella está mirando desde la ventana el sacrificio y la sangría de los pocos. Vivo, soy partidista. Por eso odio a quien no toma partido, odio a los indiferentes.

11 de febrero de 1917

 

Indifferenti1

Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che "vivere vuol dire essere partigiani".2 Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L'indifferenza è il peso morto della storia. E' la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica. L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all'indifferenza, all'assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.
I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'èin essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

Notas:

[1] Publicado en La Città futura, 1, febbraio del 1917:1-1

[2] Cfr. Friedrich Hebbel, Diario, trad. e introduzione di Scipio Slataper, Carabba, Lanciano 19I2 ("Cultura dell'anima"), p. 82: "Vivere significa esser partigiani" (riflessione n. 2127). Questo stesso pensiero di Hebbel era stato pubblicato nel numero del "Grido del Popolo" del 27 maggio 1916, insieme con le seguenti due "riflessioni" tratte dalla medesima opera: " 1. Un prigioniero è un predicatore della libertà. 2. Alla gioventù si rimprovera spesso di credere che il mondo cominci appena con essa. Ma la vecchiaia crede anche più spesso che il mondo cessi con lei. Cos'è peggio? "