-I-
Questioni preliminari
La problematica della comunicazione è diventata ormai un tema "generale" e un tema politico: tanto essa si è fatta non solo complessa e "multimediale", ma anche diffusa e ramificata in tutti gli aspetti della vita sociale, che è restrittivo assumerla da un solo lato e limitarla, ad esempio, negli steccati della teoria lingüística o della sociologia dei mass-media. Questo, che alla comunicazione qualsiasi disciplina stia stretta e perda di mordente conoscitivo, avviene per qualcosa che caratterizza un passaggio di fase, per una nuova situazione con cui ci troviamo a fare i conti, comunque la si voglia valutare e qualsiasi nome gli si dia (più dei vari termini alla moda, fosse pure il suggestivo "età del silicio", mi sentirei di adottare il corretto "tardo capitalismo", o l'ancor più calzante "basso capitalismo").
Comunque la si voglia chiamare, questa fase vede la comunicazione sempre più "aderente alle cose": la comunicazione assume importanza sempre maggiore, da un lato nella produzione, dall'altro per la produzione. L'investimento tecnologico sulla rapidità della comunicazione è precisamente funzionale allo sviluppo e al movimento del capitale finanziario ("virtuale" o "fittizio" o, come è stato detto, "puro spirito") e all'egemonia del "denaro dematerializzato", mentre, nello stesso tempo, diventa essenziale strumento di collegamento dei segmenti lavorativi della nuova fabbrica, secondo il modello "toyotista". Le prospettive di nuovi lavori e di lavori "a distanza" sono rese possibili dall'incremento dell'area dell'intermediazione, di quella sorta di "produzione del mercato e delle merci" senza la quale un prodotto rimane tale e sembra non poter raggiungere il paradiso del consumo. Ormai non c'è iato, ma passaggio quasi impercettibile tra la comunicazione nella produzione e la comunicazione per la produzione, tra le connessioni dei segmenti aziendali e l'invadenza "interattiva" dei mezzi di comunicazione di massa, con la loro produzione di consenso tramite un immaginario omologato e quasi obnubilato (con punte di imbarbarimento culturale); e il divario tende a scomparire anche nelle strategie dei "poteri forti" per il controllo e la distribuzione delle "reti" dello spazio-mondo, compreso quel recente inquietante fenomeno della politica italiana che ha visto, nella discesa in campo di Berlusconi, l'unificazione in un solo corpo del potere della comunicazione e del potere politico.
L'idea stessa di accomunare gestione aziendale e azione di governo è non solo il portato di una mentalità monomaniaca, ma poggia su di un intreccio di pratiche in cui è diventato difficile distinguere i diversi livelli (ad esempio, denaro e sapere tecnologico, servilismo manageriale e impoverimento della cultura). In una realtà in trasformazione, le distinzioni dei diversi ambiti e i modi usuali di considerarne i rapporti possono diventare insufficienti e correre rischi di rigidità che nuocciono alla comprensione della situazione in atto. Il che non significa minimamente che dobbiamo gettar via tutto, bambino e acqua del bagno, abbandonadoci allo stato ameboide della complessità con la consolazione di qualche suadente "lasciar essere". Si tratta invece di trovare o recuperare gli strumenti teorici capaci della maggiore presa, mettendoli alla prova dell'emergenza. È quanto mi prometto di fare riflettendo sulle analisi e le proposte di Rossi-Landi, saggiandone le possibilità attuali di applicazione e di "uso" nella problematica della comunicazione. La prima cosa che riprendo da lui è l'ipotesi che le nozioni teoriche siano propriamente "strumenti"; e la riprendo nel fatto stesso di mettermi a lavorare con quelle.
Perché Rossi-Landi
Ferruccio Rossi-Landi è stato uno dei maggiori teorici dell'area culturale materialista, uno dei pochi (con Galvano della Volpe) ad aver realizzato consistenti aperture alla cultura non marxista guadagnandone un fondamentale potenziamento. Come della Volpe con la linguistica saussuriana e la glossematica, così Rossi-Landi ha fatto un "uso marxiano" della semiotica di Morris e del secondo Wittgenstein. Ma, come della Volpe - cui per altro è vicino per il metodo "logico-storico" e per la nozione del "parlare comune", paragonabile al "letterale-materiale" dellavolpiano - così Rossi-Landi ha subito una evidente emarginazione nel nostro dibattito culturale, negli studi di linguistica e di teoria, pernon parlare degli sviluppi della critica letteraria, dove è rimasto affatto ignoto. Se si eccettua il lavoro meritorio di Augusto Ponzio e qualche altra saltuaria menzione, il lavoro di Rossi-Landi è stato sistematicamente tenuto in disparte e passato sotto silenzio. Ciò può essere imputato al ben noto sciovinismo di certe aree e alla geopolitica delle mode culturali che penalizza il nostro paese: e non stupirà, allora, il non rinvenire traccia di un teorico più legato alla cultura anglosassone che a quella francese nel Dizionario di Semiotica di Greimas e Courtés. Ma che dire dell'assenza di citazioni in tutti gli svariati volumi della Enciclopedia Einaudi? C'è qualcosa di più in questa esclusione: al di là delle normali prevenzioni accademiche, le ragioni del rifiuto stanno nella "scomodità" del pensiero di Rossi-Landi, nel suo deciso andare controcorrente ("il trovarmi controcorrente e fuori dalle mode culturali è cosa cui sono abituato"). Cui si aggiunge una sorta di paradossale congiuntura storica: la data di pubblicazione del libro principale di Rossi-Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato è il 1968, e se ciò dimostra il suo precorrimento dei fermenti di un marxismo "dissidente", è tuttavia proprio in quella naturale "area di riferimento" della costestazione extraparlamentare - cui si rivolgeva anche la sua rivista "Ideologie"- che Rossi-Landi e le ipotesi di una semiotica "materialistica" trovavano la strada ingombra e non poteva avere molto ascolto il suo argomentare dialettico, stante il modo piuttosto totalitario con cui si veniva affermando in quegli anni il primato dell'economia. La "critica dell'economia politica", tranne rari casi (da un lato la scuola dellavolpiana, dall'altro l'avanguardia con Sanguineti, Di Marco e lo Scalia di allora, non ancora ermeneutico), tendeva a sovrapporsi ai problemi della comunicazione e del linguaggio in modo da sopprimerli o da ridurli a mere appendici. E quando il dibattito potrà riavviarsi al di fuori delle formulazioni dogmatiche, tutto lo spazio verrà conquistato (sul finire degli anni Settanta) dalla reazione neotradizionale dell'ermeneutica e dallo scetticismo del postmodernismo decostruzionista, tagliando fuori così la ricerca del nostro, sebbene essa stesse compiendo, intanto, ulteriori passi di articolazione e approfondimento, sprattutto nell'indagine sull'ideologia.
Ma si sa che le opere, anche quelle di teoria, sono - direbbe Benjamin - come congegni ad orologeria "caricati per un certo ora"; e forse il momento di rileggere e rivalutare a pieno il lavoro di Rossi-Landi arriva adesso che, tramontati molti miti rivoluzionari, la saturazione si approssima anche alle fortune e del conforto ermeneutico e della seduzione postmoderna. Se è vero che l'attuale fase si caratterizza per l'intreccio di produzione e comunicazione si può subitocominciare a notare che questo è il principale postulato teorico enunciato da Rossi-Landi all'atto della sua geniale compenetrazione dell'economia nella linguistica.
Produzione e comunicazione
La riflessione di Rossi-Landi prende le mosse dall'accostamento, o meglio dall'accertamento della inseparabilità di fatto di produzione e comunicazione. Di pari passo (in quella che egli chiama l'"omologia") procede la realizzazione degli utensili e quella dei segni. Allo stesso modo con cui agisce mediante strumenti su materiali per dar luogo a prodotti, così l'uomo agisce sui segni per dar luogo a enunciati, che sono quindi, a loro volta, artefatti, strumenti e risultati del lavoro: e "l'uomo non ha mai prodotto artefatti linguistici senza al tempo stesso produrre anche artefatti materiali, e viceversa". Questo spunto, apparentemente semplice e quasi ovvio, è gravido di conseguenze che vanno al di là del parallelismo "omologico" con cui Rossi-Landi cerca di far coincidere i vari gradi della produzione con quelli della comunicazione; innanzitutto, se utensili e segni (ma sarebbe più esatto dire utensili e messaggi, perché il singolo segno è fatto equivalere piuttosto a un pezzo dell'utensile) sono collocati su un terreno che li comprende entrambi, sono insomma complanari, deve cessare ogni rivendicazione di priorità e ogni tentativo di riduzione. Da un lato, perde di ragion d'essere il grezzo "economicismo" e la tentazione di porre un nesso causale, deterministico, tra l'attività del lavoro e quella della cultura; la sovrastruttura (e lo si preciserà più avanti affrontando il problema dell'ideologia) non può più essere considerata una evanescente emanazione dalla corposa realtà della vita, poiché anch'essa si fa attraverso un'elaborazione di quei concreti oggetti "sociali" che sono gli usi consolidati del linguaggio, che Rossi-Landi arriva a contemplare sotto la categoria del "capitale linguistico". Dall'altro lato, s'impaccia anche l'opposto ragionamento, quello che riduce tutto a linguaggio affermando che non possiamo toccare altro che segni e proponendo l'abbandono alla deriva di infinite, e di volta in volta supplementari, interpretazioni: infatti, Rossi-Landi, una volta definita la comunicazione come "produzione e circolazione di messaggi nell'ambito di una comunità linguistica", procede ad una serie di aperture e di allargamenti di prospettiva che conducono al di là del "glottocentrismo", verso la considerazione dell'importanza della comunicazione non-verbale, fino a raggiungere i margini del segno nell'analisi dei "residui segnici", dove è dato l'alt a qualsiasi imperialismo semiotico. Inoltre, l'identificazione della comunicazione con il comportamento ("comportamento e comunicazione stanno dunque sempre insieme") conduce a considerare, accanto ai codici usati intenzionalmente, la continua ingerenza di "programmi" che prescrivono "ruoli individuali o di gruppo" ai partecipanti all'interazione, che essi adempiono anche senza saperlo e volerlo, in forme involontarie e inconscie, "ancor più profonde e meno avvertite di quelle verbali". I programmi di comportamento integrano i codici linguistici e nel contempo sono contenuti in essi: di qui la "natura essenzialmente politica" dei fenomeni segnici e dell'intera comunicazione ("politico è il fondamento delle cose", sottolinea Rossi-Landi).
Il nocciolo della posizione di Rossi-Landi è nel tentativo di stabilire (sulla scorta di Hegel e di Marx) una dialettica tra produzione e comunicazione (tra l'homo faber e l'homo loquens), per la quale, se da una lato è attribuita ai segni una loro economia (un lavoro e un mercato), dall'altro lato la merce viene considerata "come messaggio". È proprio la dialetticità a marcare le distanze da ipotesi apparentemente analoghe di area francese - penso a Per una critica del l'economia politica del segno di Baudrillard (1972). Baudrillard inserisce il "valore/segno" in antitesi ai valori economici d'uso e di scambio, come se l'indice dell'appartenenza di classe cancellasse del tutto il concreto bisogno materiale (differenza: Baudrillard considera la merce come un segno, mentre Rossi-Landi dice che è un messaggio; il primo non vede altro che la funzione di status symbol, mentre il secondo analizza ben tre "strati di significazione" della merce, più due aggiuntivi). Al di là del sistema che governa i valori segnici resta al teorico francese il sogno dello "scambio simbolico", cioè di una comunicazione "reciproca" e "ambivalente" non condizionata da alcun codice (in altre parole: uno scambio senza società?); intanto, visto lo svuotamento della materialità degli oggetti, ridotta a "effetto" del sistema, Baudrillard, che pure in quel periodo si muove nell'ottica dello scontro di classe con foga sovversiva, è pronto ad arrendersi al fascino dei "simulacri" ed è già tutto pervaso di poststrutturalismo derridiano.
Rossi-Landi, invece, cerca di prospettare il processo "unitario" che coinvolge produzione e comunicazione, salvandone le differenze. Se dialettica c'è, è una dialettica affatto particolare e peculiare, quella che vede nel linguaggio un'economia, con tanto di ipotesi del "capitale linguistico" e del "denaro linguistico", e nelle merci rintraccia una "natura semiotica". A ben vedere è una dialettica a chiasma: che opera con lo sguardo "strabico" e straniante di guardare a ciascun ambito dalla prospettiva dell'altro, mediante una calibrata trasposizione tra "universi di discorso".
È vero che, quando si tratta di scegliere un nome per indicare l'orizzonte complessivo, Rossi-Landi dà la preferenza al termine semiotica; ma in quel momento il termine raggiunge l'ampiezza più lata possibile, coincidendo con la complessiva "riproduzione sociale" ("è con tutta la propria organizzazione sociale che l'uomo comunica"). È una "semiotica generale", equivalente della "teoria generale della società", che può ricevere parimenti il titolo di "antropologia generale".
-II-
Alcuni nodi problematici
Poiché, come Rossi-Landi ben sapeva (e lo dimostra il suo stile argomentativo non apodittico, ma sempre attento a tutte le possibili obiezioni), ogni ipotesi solleva più problemi di quanti ne risolva, metto subito in campo due questioni:
1) La connessione di utensili e segni è pensata come costitutiva dell'agire umano. Fin dai primordi, dai primi ciottoli scheggiati, l'uomo "non avrebbe potuto lavorare ad alcun oggetto se non comunicando linguisticamente con altri lavoratori". L' "ominazione", cioè l'uscita dalla natura, avviene attraverso la "vita sociale" fondata dai diversi tipi di "scambi". Il che per altro non esclude, per Rossi-Landi, il permanere di una continuità con la vita animale ("Gli uomini, certo, sono animali... ma non lo sono soltanto"). Avremmo dunque a che fare con la prospettiva di una evoluzione dal semplice al complesso (tale che solo dagli sviluppi estremi è possibile individuarne gli aspetti originari), con "salti" di qualità sì, ma senza inversioni di rotta e quindi senza enfasi di sconvolgimenti epocali. Domanda: in che cosa consisterebbe la novità della fase recente, se da sempre produzione e comunicazione sono affiancate e inseparabilmente congiunte? Rovesciando il discorso: quali sono per Rossi-Landi i caratteri specifici del capitalismo e, in esso, del nuovo capitalismo?
2) Altra domanda: fino a che punto i due livelli dell'universo produttivo e dell'universo segnico possono essere mantenuti "equipollenti" senza che avvenga di perdere l'equilibrio e di ricadere o da una parte o dall'altra? Ossia: - o in un'idea della centralità della comunicazione come dominio delle apparenze, in cui vengono di fatto occultate le questioni relative agli interessi materiali; - o in un privilegiamento dell'organizzazione tecno-economica che rende la comunicazione un'appendice servile (nel caso della cultura "bassa"), oppure una sbiadita efflorescenza (nel caso della cultura "alta"). Come avveniva in certe rigidità della tradizione marxista sul rapporto struttura/sovrastruttura, la netta separazione delle sfere conduce alla subalternità di una di esse, per quanto compensata da un'ingegneria di macchinose retroazioni.
Si dirà, e giustamente, che la separazione delle sfere è più un dato di fatto che un difetto dell'osservazione; tant'è che il problema della gestione del sistema odierno consiste proprio nel curare e attenuare questa "schizofrenia" costitutiva delle rispettive ragioni della tecnica, dell'economia, della politica portate a divergere senza che la classica "mano invisibile" del mercato capitalistico possa evitarlo. E però è pure un fatto che, se restiamo a riflettere dentro la separazione come dato, non c'è via d'uscita: né per i fautori del sistema (cui non resterà, come a Dahrendorf, che sperare nel miracolo di una auspicabile "quadratura del cerchio" tra benessere economico, coesione sociale e libertà politica: sapendo benissimo quali dei tre aspetti si è disposti a sacrificare prima); né per gli avversari (cui non resterà, come a Latouche, che esecrare la mostruosità del "sistema tecnico", affidandosi all'emergere di economie "informali" presso le culture tradizionali, in definitiva con una pia speranza umanistica). Difficoltà di questo genere sono, forse, difficilmente evitabili; e toccano allo stesso Habermas quando distingue tra "agire strumentale" e "agire comunicativo". Riprenderò più avanti il confronto con Habermas, interrogando, per adesso, Rossi-Landi sui due nodi sopra enunciati.
Intensificazioni
Certo: un'amigdala non è un computer. Il percorso evolutivo passa per decisivi salti di livello: dall'utensile semplice a quello costituito di parti, all'utensile per costruire altri utensili, alla macchina come insieme di utensili che agiscono l'uno sull'altro in un gioco di forze, al meccanismo autosufficiente, infine alle macchine automatiche autoregolantisi. Ma è importante notare che, per Rossi-Landi, ogni acquisizione non annulla le precedenti, e ciò vale, ancor più che per gli artefatti materiali, per quelli linguistici e segnici. Pensare per fasi, allora, significa non cadere nella visione privilegiata del presente in cui esso si sublima in assoluta novità, decretando, con imperiosi diktat, l'oltrepassamento dell' "ieri" (è l'ottica miope del postmoderno: la storia è finita; le ideologie sono morte; l'utopia è dannosa; la critica non serve; l'avanguardia è impossibile e comunque a noi poco cale...).
La prospettiva di Rossi-Landi vale a evidenziare l'intensificazione dei fenomeni: così è per il mercato (già esistente nel semplice baratto), come per il capitale e per la stessa connessione di produzione materiale e comunicazione. Quest'ultima è data fin dalle industrie primitive, ma diventa certamente più stretta man mano che le tecniche del lavoro si complicano e i modi per "manipolare la natura esterna" si fanno sempre più assomiglianti a proiezioni della "macchina interna": nel caso del computer, "con l'automazione, produzione materiale e produzione linguistica per così dire si ricongiungono ed esibiscono la propria omologia fino al punto di risolverla in identità... È il settore della speciale lingua tecnica o formale che viene realizzata nella materia della macchina quale sua parte integrante". L'intensificazione non è, tuttavia, un portato "naturale", da accettare ad occhi chiusi; anzi, proprio dove essa appare giunta al massimo, si apre obbligatoriamente il problema del giudizio, la domanda se non sia anche intensificazione dei "mali"; e si apre il problema delle condizioni di possibilità del giudizio e della opposizione che ne può derivare (di questo discuterò nella terza sezione di questo saggio, trattando dell'alienazione e dell'ideologia).
Secondo Rossi-Landi, il capitalismo è contrassegnato dalla crescita smisuarata del "capitale fisso" e ciò innesca un movimento che da un lato diminuisce il "valore dei lavoratori" fino a renderlo tendenzialmente superfluo, e quindi a "strumentalizzare" l'uomo alla produzione; dall'altro lato, non lascia margini di salvezza, pervadendo ogni spazio vitale ("le strutture della produzione premono da tutte le parti, permeando sempre di più ogni aspetto della nostra vita"). Bisogna allora concludere che non c'è scampo, almeno in Occidente, e lasciarsi andare a un ruolo esclusivamente ammonitorio, di lamentazione e disperazione "apocalittica"?
È fondamentale notare che, per Rossi-Landi, i sistemi economici e i macchinari tecnici, per quanto possano apparire indipendenti dall'uomo fino al punto di sopraffarlo, sono pur sempre prodotti dall'uomo e dunque la loro potenza dipende da una delega sociale. A proposito dei calcolatori, egli commenta che essi "hanno uno status sociale solo nel senso che senza una comunità umana non ci sarebbero calcolatori" (da questo punto di vista il computer non è che un'amigdala altamente sviluppata). È possibile quindi riflettere sulle contraddizioni dell'intensificazione, senza darne gli esiti già decisi e ineluttabili per via di un qualche (heideggeriano) "allontanamento dall'essere".
Per motivi analoghi, anche a proposito della "macchina linguistica", Rossi- Landi non accetta la sua assoluta autoistanza e quindi rifiuta in modo netto la moda del "panlogismo", vale a dire la concezione (strutturalista e poi decostruzionista, ma comune anche all'ermeneutica) che riduce tutto a segno, facendo della semiotica un impero onnivoro e totalizzante. È una "semiotica idealista", sostiene il nostro autore, quella che si sottrae "a un'interpretazione sociale dei segni" e nello stesso tempo scorpora i segni nell'illusione di una loro libera "creabilità". Al panlogismo, Rossi-Landi oppone, epigraficamente, che "se tutto fosse linguaggio, il linguaggio non ci sarebbe".
La comunicazione come scambio
Parlare di coesistenza e di "intreccio" tra produzione e comunicazione non è sufficiente, se non si precisano meglio i rapporti e le posizioni reciproche. Ma è possibile farlo salvando insieme la "priorità" della produzione e la "centralità" della comunicazione? Rossi-Landi ci prova sviluppando entrambi gli schemi corrispondenti; lavorando per un verso sul nesso struttura/sovrastruttura, per l'altro verso articolando la triade del ciclo economico produzione-scambio-consumo. Vediamone qualche dettaglio.
1) La dottrina marxista del rapporto tra base materiale e sovrastruttura viene ripresa nel punto di maggiore flessibilità problematica, cioè da Gramsci. Come Gramsci aveva inserito la "società civile" quale anello di mediazione, così anche Rossi-Landi ritiene necessaria una categoria "interna" che consenta di comprendere meglio i passaggi nell'uno e nell'altro senso (le azioni e le reazioni). Questo ruolo è assegnato ai sistemi segnici: i segni e i loro codici consentono la formazione delle "istituzioni ideologiche" (sovrastrutturali) in modo che esse non siano la semplice emanazione o il ricalco dei rapporti di produzione. In senso inverso, le istanze di trasformazione partono da "nuovi valori" ideologici e solo servendosi dei sistemi segnici possono intervenire concretamente sulla produzione. Questa articolazione e la relativa autonomia dei sistemi segnici dalle istituzioni ideologiche risolve altresì l'annoso interrogativo sulla lentezza dei cambiamenti della lingua rispetto alle rivoluzioni della società.
2) A partire dalla tripartizione del ciclo della "riproduzione umana" in produzione- scambio-consumo, Rossi-Landi argomenta che la fase dello scambio è quella che maggiormente ha bisogno della comunicazione, ed anzi non può prescinderne. Non che non esistano parole o segni anche nel momento del lavoro produttivo, ma lì sono di fatto secondari, mentre lo scambio è, nella sua stessa sostanza, costituito dalla comunicazione: "Non solo lo scambio non può limitarsi agli oggetti materiali esterni; non basta nemmeno dire che durante lo scambio c'è anche uso di segni. C'è qualcosa di più, e precisamente che vengono prodotti, trasmessi e ricevuti (consumati) veri e propri messaggi. (...) Affinché due oggetti materiali vengano scambiati, è necessario che i due uomini che se li scambiano si servano di sistemi segnici". Notiamo che a livello dello scambio sono necessariamente compresenti corpi e segni ("si scambiano corpi e al tempo stesso si scambiano messaggi"); e che vi si sviluppa un nuovo ciclo di produzione-scambio-consumo, in questo caso rappresentato dagli specifici produzionescambio-consumo di messaggi. La formula diventerà produzione-scambio (produzione-scambio-consumo segnici)-consumo. Questo schema può anche essere sovrapposto al precedente; e allora l'ideologia riceverà il posto del consumo (giusta "l'idea che gli uomini debbano continuamente pascersene"): ma è soprattutto con la doppia tripartizione di produzione-scambio-consumo che Rossi-Landi riesce a staccarsi da una concezione fantasmatica e puramente illusoria della sovrastruttura: la comunicazione inserita nella produzione, non sta più neanche sopra (quasi un'aereo e leggero ectoplasma) ma viene pensata ben dentro i processi materiali (piuttosto una "endostruttura"), pesantemente materiale essa stessa in quanto esecuzione e risultato di un lavoro. E mentre il "modo di produzione" continua a governare l'intero ciclo, compreso quello interno, la comunicazione collocata nella "funzione intermedia" può correttamente essere considerata centrale, quale principale strumento della "riproduzione sociale".
Proprio per questa rilevante posizione assume importanza l'ottica critica e l'intervento modificatore sugli assetti ufficiali della comunicazione. Già Rossi-Landi (nella bella intervista a Golino del 1969) sottolineava la necessità, per una forza di opposizione, di centrare questo bersaglio: "noi vogliamo attaccare il sistema anche a casa sua, nel nucleo più intimo del suo modo di funzionare. Questo nucleo non può essere che linguistico, comunicativo". Oggi, per la pervadenza della comunicazione, un tale attacco non potrà più mirare a un "nucleo", ma a una "rete" plurale e diffusa; tuttavia l'imperativo di "passare attraverso il linguaggio" non ha perso affatto di attualità.
-III-
La critica dell'ideologia
Il problema dell'ideologia si incunea tra i livelli della produzione materiale e della comunicazione segnica, impedendo che esse si sommino una sull'altra al modo di tecniche "neutrali". Se la comunicazione è lo strumento della "riproduzione sociale", essa ne sconta e ne rifrange i conflitti: le asimmetrie ingiuste, i poteri non trasparenti, le inefficienze mirate. Nel momento stesso in cui si pone, agli albori dell'"ominazione", la costruzione "di attrezzi e di parole" è legata indissolubilmente alla "divisione del lavoro": "Non ci sarebbe divisione del lavoro senza una qualche forma di comunicazione; questa però non si formerebbe senza divisione del lavoro". Proprio questo legame "alla radice" con lo squilibrio dei ruoli e la distribuzione ineguale costituisce la "malattia" della comunicazione che ne inficia la completa "autotrasparenza" (è l'assioma di fondo del materialismo marxiano, il non coincidere della coscienza con l'essere sociale). Secondo il detto di Marx più volte ricordato da Rossi-Landi, gli uomini "fanno cose che non sanno di fare". Questa è l'ideologia.
Rossi-Landi ha dedicato all'analisi dell'ideologia una grossa parte del suo lavoro di studioso: non per caso "Ideologie" si è intitolata la rivista da lui diretta dal 1967 al '74; e a L'ideologia è dedicato il suo libro più organico e quasi consuntivo (pubblicato nel 1978). Lo stesso discorso sulla semiotica è sempre un discorso su semiotica e dottrina delle ideologie (nella convinzione che "debbano essere sviluppate insieme", pena la loro inadempienza). In questa diuturna attenzione, Rossi-Landi tiene ben presenti i diversi contributi sul tema (sia della tradizione marxista che della "sociologia borghese") e tenta, come suo solito, di trovare un orizzonte unificante alle due prospettive emerse nel dibattito, cioè alla considerazione dell'ideologia come "falsa rappresentazione" oppure come "visione del mondo" (assolutamente "negativa" l'una; tendenzialmente "neutrale" l'altra). Nello stesso tempo si prova a unificare anche il terreno dei grandi sistemi ideologici con il livello sfrangiato, comportamentale e psicologico della "falsa coscienza". La prima operazione concerne il problema di affidare all'ideologia anche un ruolo "positivo" (e quindi di dar campo a una ideologia "progressista"), senza tuttavia arrivare alla giustificazione dell'ideologia in quanto tale (come ha fatto di recente Ricoeur, facendola coincidere, al fondo, con un "agire simbolico" inevitabile e primitivo, che accompagnerebbe qualsiasi azione umana e, precedendo le possibili "distorsioni", avrebbe una "funzione integrativa" normale nella formazione delle identità sociali). La seconda operazione, non solo emenda la considerazione meramente "istituzionale" (non ci si può limitare a mettere sotto accusa i grandi Apparati Ideologici di Stato; gli AIS di Althusser); ma va soprattutto a smentire ogni strombazzata "fine delle ideologie", mostrando la loro permanenza inossidabile nei processi "minimi" e inconsci della vita quotidiana.
Su questo ultimo versante, della "falsa coscienza" calata nei comportamenti e nei relativi "programmi", Rossi-Landi reinterpreta le patologie psichiche quali portati di "pratiche sociali"; e mette in evidenza la funzione non solo di copertura e di "mistificazione" (che era, nella stessa Ideologia tedesca di Marx-Engels, il carattere prevalente), ma anche le altre forme della "feticizzazione", del "centrismo", della "confusione di proprietà" (come quando qualcosa di sociale viene preso per naturale). Una analoga pluralità di forme viene riscontrata nell'ideologia verbalmente espressa nel pensiero sistematico, in cui si differenziano "giustificazionismi", "separatismi", "formalismi" e quant'altro.
Al di sotto, però, di queste articolazioni, Rossi-Landi scorge un movimento comune alle forme ideologiche proprio nel rifiuto a considerarsi tali; in altre parole, nella pretesa ad una validità universale astratta che prescinda dal rapporto con interessi o strategie di origine allotria. Questo "autoprivilegiamento" spirituale e mentale rappresenta in realtà una resecazione dal tessuto complesso della riproduzione sociale: con lo stesso atto con cui negano di essere "di parte", le ideologie si stabiliscono come progetti "parzializzati", separati e perciò mai completamente operativi, se non in senso diminutivo e bloccante. Il vizio di fondo delle ideologie è dunque la "de-dialettizzazione" (caduta di relazione tra le parti del processo globale e loro carente interazione). L'ideologia sta nella scissione del pensiero dalla praxis, da cui si formano simmetricamente un "falso pensiero" (impossibilitato a capire la sua funzione e le sue radici) e una "falsa praxis" (che non è in grado di riflettere su di sé). Al pensiero non corrisponde un'adeguata praxis, così come alla praxis un adeguato pensiero.
A questo punto, le due ipotesi dell'ideologia come "falsa rappresentazione" e come "visione del mondo" sembrano unificarsi: ma, allora, se l'ideologia fosse sempre una "visione del mondo", e contemporaneamente sempre e comunque "falsa", quale spazio resterebbe alle ideologie alternative? Dove si collocherebbe la stessa "critica dell'ideologia"? Il discorso di analisi dell'autore medesimo perderebbe di valore e di senso, perché l'affermazione della separazione di pensiero e praxis sarebbe a sua volta viziata da un legame difettoso con la praxis. A questo punto, per altro, la critica non potrebbe fondarsi né su un sapere pratico (in quanto, introducendo la nozione di "falsa praxis", Rossi-Landi ci fa capire le insufficienze dell'elaborazione pratico-tecnica a correggere e risolvere i propri stessi problemi); non su una scienza (in quanto essa pure, nella sua pretesa extraterritorialità asettica, tentativo di risolvere soltanto nel pensiero la separazione con la praxis); né sul passato (in quanto l'eventuale eden originario è invece il luogo dall'"alienazione mitica": "disalienare l'uomo" significa opporsi al corso intero della storia).
Un nemico siffattamente gigantesco e una lotta che richiede una "mole enorme di lavoro e fatica", potrebbero indurre la disperazione e la resa. Eppure l'antagonismo persiste e permea tutto il discorso di Rossi-Landi. La mia impressione è che vengano tratte al pettine, qui, le contraddizioni del dominio capitalistico: esse consistono nel fatto che al dominio occorre non solo il consenso, ma l'apporto dei dominati; occorre, insomma, risvegliare e liberare energie che possono andar oltre gli scopi previsti. Così, per Rossi-Landi, l'intensificazione del "male" coincide con l'intensificazione dei tentativi di guarigione: "alienazione e non-alienazione - egli afferma - non solo nascono, ma anche si sviluppano insieme; e occorre che il male sia estremo, acciocché i rimedi si chiariscano fino al punto di rendersi applicabili".
Confronto con Habermas sull'alienazione linguistica
La critica dell'ideologia è stata rilanciata da Habermas, nel corso del dibattito sull'ermeneutica, a mettere in forse la fiducia nella comprensione immediata (garantita dalla mediazione della tradizione ossia, gadamerianamente, dalla implicita "fusione di orizzonti"). Ora, la "comunicazione sistematicamente deformata" di cui parla Habermas non manca di somiglianze con la "disfunzione" secondo Rossi-Landi ("le gravi disfunzioni del linguaggio e in genere dei sistemi segnici", intese come "forme di alienazione"); del resto entrambi ne sono in buona parte debitori alla psicoanalisi. Ma anche la distinzione tra "agire strumentale" e "agire comunicativo", che sta alla base della habermasiana "teoria della società" può essere utilmente confrontata con l'analoga duplicazione di Rossi-Landi tra la produzione degli artefatti materiali e quella degli artefatti segnici.
Proprio da un confronto serrato, tuttavia, emergono le divergenze di fondo. Infatti i due ambiti, in Habermas, hanno modalità e funzioni diverse, tali da essere quasi in antitesi tra loro e in ogni modo non risultare di pari grado: mentre l'ambito "strumentale" del lavoro è descritto come un processo "lineare", risultante quasi obbligata del rapporto tra le risorse naturali e il "sapere tecnico" disponibile, è nell'ambito "comunicativo" che la società può compiere atti di riflessione che la portino a riconoscere e mediare le sue parti scisse, procedendo dalla "repressione" all'"emancipazione". Proprio la comunicazione, nelle procedure dialogiche e argomentative rivolte all'"intesa", prefigura l'utopia di una universalità etica dell'agire: il livello tecno-economico varrebbe soltanto da condizione negativa dell'avvento di una "comunicazione libera dal dominio", nel senso che potrebbe frenarlo ma non essere portatore di fermenti innovativi edi possibilità incentivanti.
Con la tesi dell'"obsolescenza del paradigma della produzione" Rossi-Landi non potrebbe convenire, dato che per lui anche la comunicazione è produzione e lavoro, e quindi non può presentarsi di fronte ad essi come latrice di un modello assoluto di razionalità e autotrasparenza. Certo, anche in Rossi-Landi la critica dell'esistente si proietta verso il futuro, ma ciò non dà necessariamente ragione a chi (come anche, recentemente, Ricoeur) sostiene che l'ideologia può essere contestata solo dal punto di vista dell'utopia. Rossi-Landi preferisce non parlare di utopia e, quando ne parla, è per sostenere che la prospettiva del futuro non va "dedotta a partire da una situazione che si fa passare per non-storica, quali potrebbero essere un passato paradiso perduto o un futuro paradiso da raggiungere (cioè una utopia, che è anche un'ucronia)" - il che risponde insieme ad Habermas e a Ricoeur. Il "privilegiamento del futuro" che il nostro autore mette in campo si configura piuttosto come contraddizione nel presente: "Non è comparando una parte della situazione umana con una sua presunta altra parte e facendo della seconda il modello della prima, che si può giudicare dell'ideologico; bensì comparando l'intera situazione con se stessa in quanto sottoposta all'operazione astrattiva di porla anche some situazione immaginaria ma realizzabile". Perciò, non si deve parlare di una "libertà" presupposta una volta per tutte, ma piuttosto di tendenza "liberante" e "disalienante" (e poi, commenta in una battuta Rossi-Landi, la libertà "è un'invenzione ancora assai poco sviluppata").
Una liberazione senza liberatori
Al paradosso di Mannheim (come si possa demistificare l'ideologia stando al suo interno) Rossi-Landi risponde con l'ammissione del "carattere ideologico di ogni discorso", ma aggiungendo il fondamentale corollario che tale consapevolezza è già di per sé un passo verso il tendenziale ricongiungimento di pensiero e praxis. La mancanza o la presenza dell'avvertimento della propria dimensione "storica" è decisiva per distinguere due tipi contrapposti di "progettazioni sociali" e per determinare su di essi scelte e schieramenti: alle ideologie extrastoriche (che hanno la loro base in un principio "soltanto naturale" o "sovrannaturale"; e il loro proprio nel "privilegiamento del passato") si oppongono le ideologie infra-storiche (che muovono dalla considerazione materialistica della storicità della riproduzione sociale; e hanno il loro proprio nel "privilegiamento del futuro"). Le prime operano per sottrazione (poiché si ispirano a un qualcosa che è "tolto" da condizionamenti e determinazioni esterne), le seconde operano attraverso il rimando al di là di sé, verso "qualcosa da realizzarsi". Le prime, aggrappate al loro principio, sono statiche; le seconde sono dinamiche, in virtù del loro rapporto con il cambiamento.
Come si vede, il ruolo attivo della consapevolezza, della coscienza e della volontà è affermato con forza ("l'ideologia innovatrice", scrive Rossi-Landi, "comporta una rivalutazione volontaristica del pensiero come ragione creatrice di realtà"); e tuttavia va notato che si tratta della "presa di coscienza", esattamente, dei limiti della coscienza stessa. Sebbene non si possa negare che l'autore mostri assai più simpatia per Hegel rispetto al materialismo "meccanicistico" (fino alla proposizione fantafilosofica che se Hegel fosse vissuto più a lungo avrebbe lui scritto Il capitale), non mi sembra che ci siano gli estremi per parlare di sopravvalutazione della coscienza: il problema principale, che, dal nostro osservatorio odierno, è possibile riscontrare nello schema antagonistico di Rossi-Landi, risiede piuttosto nelle trasformazioni intervenute sul fronte delle ideologie con la comparsa e la diffusione delle teorie postmoderniste che egli fece in tempo solo a intravedere ("la natura e la struttura dell'irrazionalismo sono profondamente mutate", scrisse verso la fine degli anni Settanta), ma non ad affrontare di petto. Ora, mentre i neotradizionalisti rimangono a difendere la trincea dei valori extra-storici, i postmodernisti si travestono da infra-storici, dopo avere però debitamente sostituito l'avvertitmento della storicità con quello di una mera temporalità: essi si situano sulla cresta dell'onda dello sviluppo, eppure ciò non è garanzia di reale progresso (già Rossi-Landi valutava l'ipotesi che si desse inversione di ruoli e cioè "reazione proprio col favorire lo sviluppo storico in atto, e rivoluzione proprio con l'opporglisi"). L'ideologia postmoderna potrebbe essere classificata, in termini rossi-landiani, come ipo-storica, stante la "spettrale pseudo-naturalità" in cui accoglie i ritrovati della tecnologia, l'universo tutto sincronico delle mode, la riproduzione di una comunicazione blanditiva e inebetente. Si potrebbe parlare di "privilegiamento del presente"; con la precisazione però che alla "naturalità" di quanto esiste si associa l'idea di una processualità svuotata di ogni segno progettuale e riferita a rivoluzioni dal risultato "indifferente" (qui l'extra-storico si ricicla nei panni dell'erranza infinita e del differimento, così come i prodigi della tecnica, con l'estasi ipnotica della simulazione "virtuale", sono la nuova faccia del mistico). In questo quadro, all'"ideologia della non ideologia" (che si rifugia in un ambito presunto "autentico"), viene sostituendosi l'"ideologia dell'ideologia", che si riconosce come tale nel momento stesso in cui afferma l'impossibilità di qualcosa di diverso (sappiamo di sognare, ma ciò non accelera il risveglio, sibbene il prolungamento del sogno, come Nietzsche dixit): la stessa trasparenza agisce in funzione ideologica facendo dell'ineluttabilità la più forte legittimazione.
Dall'altra parte, nelle progettazioni oppositive è diventato davvero difficile il "privilegiamento del futuro", divaricato come si ritrova tra un rinvio sine die della fine dell'attuale sistema (e il pensiero puramente teorico che "il mercato in genere potrebbe non esistere affatto"), e la prospettiva "realistica" di una gestione un po' più oculata dell'esistente; insomma, è davvero difficile trovare il "negativo rimediabile " (come proponeva Rossi-Landi), perché il negativo o non appare o appare irrimediabile. E però la mappa della "globalizzazione", a causa della sua stessa elefantiasi, si frantuma in contrasti e motivi di crisi: istituzioni ideologiche fino a ieri fortini della repressione prendono a dislocarsi in modo imprevedibile; si pensi all'essenziale contributo democratico della magistratura, ma anche alle potenzialità della scuola come controcultura avulsa dal marcato, se non si vogliono considerare gli interventi della religione che - pur restando il prototipo di ogni ideologia extra-storica - risulta, spesso, di fatto, l'unica voce di denuncia. Nell'attuale situazione, anche la nozione di "classe dominante", intesa come blocco compatto e come "mente sociale" che tira tutti i fili, va probabilmente riformulata attraverso una più composita correlazione di gruppi sociali privilegiati (era già Rossi-Landi ad adottare questa formula) che speculano e traggono vantaggio dalle fluttuazioni planetarie (o semplicemente vi galleggiano), e propendono perciò a "lasciar andare" il corso delle macchine tecniche ed economiche (le "megamacchine" di Latouche), mosse sì dai propositi delle oligarchie finanziarie, ma anche scosse dai contraccolpi della concorrenza, in un'anarcoide e cieca nozione di "libertà".
A suo tempo, Rossi-Landi ragionava della riproduzione sociale come di una "enorme macchina"; ma, a differenza di noi, e malgrado le disillusioni (senza dover aspettare la caduta di alcun "Muro", lo vediamo che equipara il neocapitalismo occidentale alle "società dove il socialismo è fallito"), egli si trovava in presenza di una crescente spinta collettiva dei movimenti di liberazione, in fase esplosiva tra i giovani e nel Terzo Mondo, e poteva quindi attribuire a "una sorta di Nuovo Principe" la capacità di riorganizzare i sistemi segnici con la "forza di una nuova progettazione sociale". Noi dobbiamo progettare la liberazione facendo a meno dei liberatori: contando ciascuno su quelle forze che sottostanno alla propria responsabilità. Ci toccano "strategie lillipuziane". Possiamo solo partire dalla crisi di onnipotenza del sistema, da quelle "crepe nei trucchi" e "fusioni nei margini", di cui ha parlato David Harvey in una delle più penetranti analisi della crisi della modernità. Lo strumento della coscienza critica e autocritica dovrà prodigarsi nell'azione più capillare possibile, mettendo in conto quella inerzia dei segni (soprattutto legata alle programmazioni non-verbali) che rende inefficaci le ragioni argomentative. Alla produzione di ragione critica deve accompagnarsi la produzione di immaginario critico: si apre il problema della comunicazione artistica e in essa dell'avanguardia.
-IV-
L'autore come produttore
Il "linguaggio come lavoro e come mercato" di Rossi-Landi sembra quasi essere il corrispettivo e il complemento dell'"autore come produttore" di Benjamin. Contro l'"aura di immaterialità" che avvolge, in generale, i prodotti linguistici; contro qualunque teoria dell'"espressione" e della "creatività" della parola; a detrimento anche delle usuali concezioni della poesia (che la vorrebbero discorso dell'"io" con se stesso); emerge un'idea "operativa" della scrittura come utilizzo e modificazione di materiali "pubblici". Una prospettiva di "analisi produttiva" del linguaggio che va ben al di là della sociologia delle strutture editoriali o dei gruppi intellettuali. Lo scrittore in quanto lavoratore linguistico, per Rossi-Landi, si trova tutto dentro il "parlare comune", da cui non è esclusa quella "produzione originale" di testi letterari, equiparabile al "prototipo unico", nella quale il modello si identifica con l'esemplare realizzato. Come qualsiasi messaggio, anche l'opera letteraria è immersa nella "riproduzione sociale": "I contenuti espressi sono sociali; gli strumenti per esprimerli lo sono anch'essi prevalentissimamente; e perfino l'espressione (compresa anche proprio l'attività materiale dello scrivere) si svolge secondo regole elaborate collettivamente". Il legame tra testo e società si precisa, nella prospettiva di Rossi-Landi, come legame tra il linguaggio scritto del testo e i sistemi segnici non-verbali che da quel linguaggio sono sottesi e comportati: l'intera problematica del contenuto viene così riformulata in termini semiotici, come riproduzione e manipolazione dei modelli e programmi del comportamento. E poiché i sistemi segnici nonverbali si insinuano anche inavvertitamente nel linguaggio, il senso del testo da un lato sfugge all'intenzionalità dell'autore ("sappiamo che le forze che hanno foggiato l'autore e gli hanno permesso di inviare messaggi erano esterne anche per lui: erano forze sovrapersonali che percorrevano la sua intera società"); da un altro lato ugualmente sfugge alla "struttura intrinseca del testo", la quale va ogni volta dialetticamente rapportata alla sua "circolazione", almeno quanto il "valore d'uso" va rapportato al "valore di scambio" (ecco un contributo originale e interessante al dibattito sull'interpretazione, una buona risposta alle oscillanti incertezze sulla sua chiusura o apertura).
Ma quando dal piano interpretativo si passa al piano "militante" e progettuale, la palla torna all'autore: la possibilità di una "eccedenza" rispetto alla propria epoca e ai suoi fattori condizionanti non è un fatto scontato, né è automatico per qualche ribaltamento di ottica dal negativo al positivo (come quando Jameson trova "utopia" in ogni "ideologia", con il semplice spostarsi dal "metodo funzionale" al "metodo anticipatorio"); essa dipende dal posizionamento dell'autore, e va verificata "nella misura in cui egli riesce ad "uscire" dalla sua stessa situazione. (...) Tale eccedenza non può risiedere che in nuovi valori che l'autore si sforza di produrre, nei quali egli intravede e fa intravedere, e in taluni casi addirittura progetta, una società diversa dalla sua". Più che di intenzionalità si tratta qui di una dialettica di "sforzi" e di "esiti", di tensione e di tendenza.
Le cose si complicano nella fase del capitalismo maturo, per effetto del predominio del "capitale fisso" sul "capitale variabile" anche nell'ambito del linguaggio: lo spazio della produzione diminuisce e i parlanti diventano per lo più "consumatori" della lingua (fenomeno che riguarda anche gli scrittori, tanto che potremmo reinterpretare la formula stessa della "letteratura di consumo", vedendola non dalla parte di chi legge, ma da quella di che scrive). La situazione di "alienazione linguistica" che Rossi-Landi evidenzia appare tuttora pertinente alla logica del sistema comunicativo: "Il capitale linguistico complessivo si tramanda e si accresce su se stesso senza aver più rapporto con la realtà umana della lavorazione cioè reprimendo in sé la propria porzione variabile. (...) Si è creato un plusvalore linguistico che non ha più niente a che fare con gli interessi dei lavoratori cioè dei parlanti. (...) L'uso del linguaggio prende vieppiù il posto della sua produzione. (...) In tal modo i parlanti diventano dei "parlati"". In questa situazione, nulla varrebbe opporre il rifiuto della lingua e dei suoi codici; sarebbe una scelta perdente, affine al silenzio, e destinata ad annullarsi da sé, con l'"espulsione dalla società linguistica" (il parlante, "parlando una lingua sviata personalmente,... non viene più inteso né più riesce a farsi intendere. È la morte linguistica o morte comunicativa"). L'unica alternativa plausibile sta in una "nuova progettazione", ossia nella organizzazione di una tendenza collettiva.
Lo scrittore ha di fronte un sentiero che si biforca: di qua l'emissione di un messaggio già codificato in partenza "come rappresentativo dell'ideologia dominante" (tendenza cui Rossi-Landi dà il nome di "realismo artistico"); di là l'emissione di un messaggio "estraneo" a quella ideologia e tendente al "rinnovamento comunicativo". È, il secondo, il caso delle avanguardie: ad esse Rossi-Landi assegna "un'esigenza di aumento della quantità di informazione" e, insieme, un'istanza di "rinnovamento sociale", nella carica radicale di contestazione "antiborghese".
Primo corollario: la dialettica dell'avanguardia
Pur interpretando l'avanguardia, in prima battuta, sulla scorta della teoria dell'informazione (quindi, come straniamento principalmente formale e come innovazione che produce un aumento "quantitativo" di informazione), Rossi-Landi la corregge con la prospettiva, per lui indispensabile, della contestazione ideologica. Tale prospettiva impedisce di pensare all'avanguardia come puro e semplice susseguirsi di "novità", e innesca, invece, la possibilità di una concezione "dialettica" dell'avanguardia.
C'è, a questo proposito, un contributo sulla dialettica del teatro d'avanguardia (datato 1966), che fornisce importanti indicazioni, utilmente estendibili e applicabili all'avanguardia artistica in generale. Già l'inserimento della dialettica nel campo dell'arte appare rilevante; ma, in più, questa è una dialettica che "non smette", che moltiplica i suoi livelli e le sue contraddizioni. A un primo livello, lo stesso specifico mezzo artistico viene visto come una dialettica del suo complesso essere un "procedimento comunitario" (ad esempio, il teatro si costituisce nella opposizione tra "scena" e "pubblico"); si ha una prima sintesi che però può essere fatta rientrare in gioco in una nuova triade dialettica: in questo raddoppiamento meta-artistico sta l'avanguardia ("l'avanguardia è un'operazione sul teatro o col teatro, ed è un suo allargamento. Il teatro si potenzia in quanto viene a trovarsi in gioco con altri elementi"). A un secondo livello, dunque, lo specifico artistico entra in dialettica con il non-artistico, si apre cioè una dialettica tra "interno" ed "esterno", che per giunta resta aperta a diverse possibilità. Infatti, l'uso della dialettica che Rossi-Landi propone possiede una "novità tecnica", tesa a impedire "ogni necessitarismo metafisico" e a farne "uno strumento nelle mani dell'uomo costruttore": la novità consiste nel porre la sintesi raggiunta sia come ulteriore tesi che come ulteriore antitesi. Nel caso del teatro, avremo: - o una operazione che parte dal dato rapporto fra scena e pubblico per poi metterlo in crisi attraverso "qualcosa di non teatrale" e realizzare infine una nuova sintesi teatrale; - oppure una operazione che parte da una situazione non-teatrale e vi applica lo strumento "teatro" in vista di "un risultato che vada al di là delle funzioni del teatro stesso". Avanguardia "centripeta" e avanguardia "centrifuga" le chiama Rossi-Landi; potremmo dire: contestazione interna dell'artistico o contestazione esterna del sociale. Entrambe le vie hanno però dei problemi, in quanto la prima sembra alla fine rientrare nell'ordine e rafforzare il luogo "rituale" dell'estetica, mentre la seconda, dal canto suo, sembra bruciare e sprecare la dotazione dello specifico.
Di qui la necessità di un terzo livello dialettico, di una dialettica al cubo, in cui le sintesi raggiunte diano origine a nuove triadi posizionandosi, anche questa volta, o come tesi o come antitesi. Non pare opportuno, in questa sede, seguire nei particolari la molteplice casistica e le complicate formule proposte da Rossi-Landi, tanto più che esse finiscono per condurre a un eccesso di teoricismo, lontano dalla programmatica prossimità "all'empiria e alla storia". Èperò tutta da raccogliere l'istanza di una "nuova avanguardia" che prenda come base i risultati delle avanguardie precedenti e tenti di dialettizzarne gli elementi separati, serrando il confronto tra lo "stile indiretto" (quella che potrebbe ridisegnarsi, con Benjamin, la strada dell'allegoria) e lo stile "diretto" (quello di un'arte-azione subito socialmente fungibile quale forza d'urto). Si dà il caso che queste direzioni si ritrovino anche nel dibattito e nella prassi del "nuovo movimento della scrittura" della Terza Ondata, sviluppatosi in questi ultimi anni, sotto forma l'una di "allegoria dei modelli" (in cui i modelli letterari ereditati dal passato sono assunti come tesi o antitesi di nuova produzione) e deformazione espressivo-grottesca, l'altra di "arte di strada" e di energia pulsionale di oralità plurilinguistica. Mi pare che il vero punto nodale che attende la Terza Ondata (e forse più in generale attende l'avanguardia del 2000) sia, appunto, la messa in tensione dialettica di queste due dimensioni in un progetto condotto verso la critica della comunicazione.
Secondo corollario: l'avanguardia agli estremi del segno
La "semiotica materialista" di Rossi-Landi si fonda sulla considerazione della natura composita del segno: il segno è visto come una unione di parti, eterogenea e provvisoria, che comprende "porzioni non-segniche"; ossia qualcosa che può anche staccarsi e sussistere senza il segno. Questa impostazione tiene alla larga l'imperialismo della semiotica. La formula materialista (ricavabile dalle proposizioni di Rossi-Landi) secondo cui "i segni sono anche corpi, ma non tutti i corpi sono segni, anche se possono esserlo", si contrappone a quella idealista che afferma "tutti corpi sono segni, ma i segni non sono corpi". È la teoria dei "residui segnici": i "residui segnici" si scorgono ai margini dei segni, sui due lati del signans e del signatum (termini agostiniani che Rossi-Landi preferisce a quelli correnti di "significante" e "significato", sospetti di mentalismo). Sul primo versante troviamo materie e corpi, tutto quanto può essere utilizzato "nella costruzione del veicolo segnico". Sul secondo versante troviamo la materia sociale ("La società è l'aspetto assunto dalla materia al livello umano"): i signata, infatti, si ricavano dal "libero fluire di ciò che è soltanto-sociale", quali "pezzi sociali" delimitati e immobilizzati. Il segno è il composto di queste parti: esso, insomma, "è una mediazione fra il materiale (nel senso di corporale) e il sociale".
Sebbene questa teoria non sia stata pensata con palese riferimento all'avanguardia, tuttavia mi sembra che una ridefinizione dell'avanguardia possa senz'altro giovarsene. Perché l'avanguardia si attua proprio proiettandosi verso questi margini estremi del segno. La cosa è pressoché evidente riguardo al primo confine, quello dei signantia che guarda verso le materie e i corpi "bruti"; con questa zona l'avanguardia "storica" ha tenuto trasgressivi rapporti con l'invenzione di parole fuori del codice (fosse per rigenerazione utopica o per sberleffo parodico; tra zaum, dada e Palazzeschi) e con l'accentuazione dei valori "sonori" e della performance vocale. Ma anche il secondo confine è stato attraversato, nel corso del Novecento, con la reimmersione dei signata nel "flusso sociale" (penso a una linea di marcata impostazione "politica", da Majakovskij a Brecht, da Lucini a Sanguineti). Insieme a queste linee, il Novecento ci lascia in eredità il problema della loro dialettizzazione e il rischio di parzialità, nello sconfinamento su un solo versante. Così, una avanguardia che restasse ad operare sulla materia dei signantia, non solo farebbe cose già fatte, ma avrebbe molto probabilmente assicurato al massimo un risultato ludico, quell'esito sviante in cui si dà per realizzata nell'arte medesima la fine dell'alienazione (in definitiva tutti i procedimenti soltanto-formali e le contravvenzioni soltanto-artistiche finiscono qui; e non per caso è attualmente il postmodernismo che se ne è appropriato, riciclando in modo depotenziato le tecniche dell'avanguardia). Ma anche l'impiego "politico" non è esente da rischi se propugnato isolatamente: il suo destino è la rigidità, la scontatezza, lo sfogo "patetico" (come in certi, ritornanti, "pasolinismi").
Insomma, da ogni lato l'avanguardia corre pericolo di "essere assunta in servizio" e da questo pericolo deve guardarsi, sottraendosi a seconda del caso dalle manovre inglobanti del sistema. Le ricette riduttive e compromissorie di una avanguardia "moderata" sono sempre in agguato (a suo tempo, Rossi-Landi era preoccupato da una avanguardia di "centro-sinistra"...). Il segno, lo abbiamo visto, è una mediazione tra il materiale e il sociale; ma se questa mediazione è difettosa, se è tarata dall'ideologia e affetta dall'alienazione, allora il compito dell'avanguardia è quello di tornare agli estremi del segno, scomporne le parti per esplorarne la contraddizione, per esporre pubblicamente il problema di una nuova composizione.
Nota bibliografica
Le opere principali di F. ROSSI-LANDI (1921-1985) sono Il linguaggio come lavoro e come mercato, Milano, Bompiani, 1968 (con successive revisioni fino alla III edizione del 1983); e L'ideologia, Milano, ISEDI, 1978. Importanti saggi si trovano anche in Semiotica e ideologia, Milano, Bompiani, 1972 (rivisto per la II edizione del 1979) che comprende, tra l'altro, i due interventi sull'avanguardia, “Azione sociale e procedimento dialettico nel teatro” e “Significato, ideologia e realismo artistico”, nonché un lungo colloquio con Enzo Golino, intitolato “Dialettica e alienazione nel linguaggio”, che chiarisce tutti i punti della teoria di Rossi-Landi; in Metodica filosofica e scienza dei segni, Milano, Bompiani, 1985, si può leggere invece il saggio di metodologia critica “Criteri per lo studio ideologico di un autore”, oltre alla “Teoria dei residui segnici”. Interessante e utile è anche il primo libro di Rossi-Landi, Significato, comunicazione e parlare comune, Padova, Marsilio, 1961 (II edizione, 1980).
Tra i recenti contributi su Rossi-Landi, si segnalano quelli di A. PONZIO, Rossi- Landi e la filosofia del linguaggio, Bari, Adriatica, 1988; di AA. VV., Reading su Ferruccio Rossi-Landi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1994; e di C. BIANCHI, Su Ferruccio Rossi-Landi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995. L. CILLARIO ne fa uno degli stadi della ricerca "Per una teoria economica del senso", in AA. VV., Capitalismo e conoscenza, Roma, Manifestolibri, 1998. Come curiosità, ricordo che Rossi-Landi è citato da Raymond Williams con «notevole interesse» nel suo Marxismo e letteratura (tr. it., Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 57); inoltre è citato due volte a margine de L'inconscio politico di Fredric Jameson (sono due note al capitolo 1: la n. 24 sull'omologia e la n.42 su Wittgenstein, rispettivamente alle pp. 117 e 120 dell'edizione italiana, Milano, Garzanti, 1990).
Nel corso del mio lavoro di verifica e discussione, ho tenuto presenti alcuni recenti contributi del dibattito “generale” sullo sviluppo, da R. DAHRENDORF, Quadrare il cerchio, Bari, Laterza, 1995, a S. LATOUCHE, La megamacchina, Torino, Bollati Boringhieri, 1975, oltre a P. INGRAO e R. ROSSANDA, Appuntamenti di fine secolo, Roma, Manifestolibri, 1995. Per le connessioni con il discorso culturale ho trovato di particolare interesse D. HARVEY , La crisi della modernità, Milano, Il Saggiatore, 1993.
A raffronto con il pensiero di Rossi-Landi ho tenuto, nella prima parte, J. BAUDRILLARD, Per una critica della economia politica del segno, Milano, Mazzotta, 1974; nella terza parte in particolare J. HABERMAS, Conoscenza e interesse, Bari, Laterza, 1983; ID., Il discorso filosofico della modernità, Bari, Laterza, 1987; e anche P. RICOEUR, Conferenze su ideologia e utopia, Milano, Jaca Book, 1994. Qua e là citati, ma ovunque tenuti presenti, sono della Volpe e Benjamin, già più volte da me indicati come punti di riferimento indispensabili di un materialismo “sostenibile”. |