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Dossier
AdVersuS, Año II,- Nº 3, agosto 2005
ISSN: 1669-7588
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INCONTRO CON GLI STUDENTI DEL LICEO CLASSICO "SOCRATE" DI ROMA

 

Emilio Garroni: Mi chiamo Emilio Garroni e da parecchi decenni insegno Estetica all'Università "La Sapienza" di Roma, presso la facoltà di Lettere e Filosofia. Paradossalmente, dopo tanti anni di insegnamento e di studio, quello che mi sento di avere veramente imparato è ciò che l'estetica non è. Direi di cominciare la nostra discussione sul tema di oggi, Arte e verità, visionando una scheda filmata che potrebbe fornirci un quadro generale sull'argomento.

L'arte può allargare e approfondire la nostra comprensione della verità. Nella contemplazione dell'opera d'arte siamo messi di fronte ad un intero mondo. L'opera d'arte sa produrre questo vero e proprio artificio, fornendo ordine e struttura al mondo e raccogliendo un'unità di comprensione di esso. Così ne La tempesta di Giorgione troviamo la vastità e la ricchezza della natura e il posto incerto e misterioso occupato dagli esseri umani, dalla vita dell'uomo, nella sua nudità e fragilità, ma anche nella memoria e nei resti del proprio passato.

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Il dipinto sa presentare questi diversi e conflittuali aspetti della vita in un'unica trama. L'arte può riuscire in questo sforzo se e solo se essa si pone in grado di guidare l'attenzione del fruitore. Nella contemplazione del dipinto la nostra attenzione viene purificata dall'affastellarsi dei pensieri e dei sentimenti che circondano il flusso quotidiano della coscienza e viene condotta a notare le connessioni e le rassomiglianze interne all'opera.

dossier2Ma non è proprio questa forma di purificazione una sorta di allontanamento dalla realtà, un distacco e un raffreddamento dell'anima? Il bello può celarci la sofferenza e l'insondabilità della vita, sofferenza verso la quale la risposta più vera, l'unica possibile, può essere, talvolta, soltanto lo smarrimento o un gesto morale? L'arte può anche cercare, intenzionalmente, di scuotere le nostre coscienze, per mostrare a ognuno la frammentarietà del mondo, la mortalità e l'inquietante contingenza in cui sono avvolte le vicende umane. In questo modo ci scuotono le sculture metalliche di Anthony Caro, il quale, forse, non costituisce un esempio di pura scultura, ma solo la manifestazione di informi aggregati di elementi. Messi di fronte a questa forma di arte non si è, certamente, in presenza dell'artificio dell'unità bensì si è innanzi a un artificio opposto, in cui viene ricomposta la disgregazione dei manufatti umani e viene messa in luce la capacità del nostro mondo di generare scarti e rifiuti che sono il segno della nostra stessa condizione. Eppure, dietro il senso di frammentazione generato dalla scultura, si fa strada un timore: che nell'esperienza estetica ci sia solo il sentimento autocompiaciuto della nostra caducità, il piacere sottile dell'autorappresentazione e che, quindi, l'arte di nuovo ci allontani dalla realtà. Come può il sentimento estetico metterci in contatto con la vita pulsante e vasta degli altri?

E.G.: La scheda presenta un contenuto abbastanza chiaro, anche se nell'esporre il problema del rapporto tra estetica e conoscenza ha inevitabilmente privilegiato le arti visive. Tra di noi, invece, potremmo anche parlare di generi letterari quali il romanzo, oppure discutere di musica, che, per quanto riguarda il rapporto tra arte e verità, si rivela come uno degli argomenti più spinosi. Vorrei cominciare ad ascoltare le vostre domande.

Studentessa: Qual è, secondo Lei, il tipo di verità che potrebbe essere esprimibile da qualsiasi forma d'arte? Mi riferisco a una delle "grandi verità" indubitabili - addirittura definibili come ultime - o a una di quelle verità che possono riguardare gli aspetti meno visibili e meno "scontati" della realtà che ci circonda. Vorrei aggiungere che con "realtà" intendo tutto ciò che è costituito dagli esseri umani e dal mondo.

E.G.: Penso sia giusto porre tale quesito, perché con esso si va a toccare un punto dolente dell'argomento di cui stiamo trattando: il significato polisenso della parola "verità". "Verità", infatti, significa molte cose. Certamente, nel caso dell'arte, non possiamo parlare di "verità" come se essa fosse una pura corrispondenza tra proposizioni e stati di cose: quest'ultimo, infatti, è solo un certo tipo di verità, che può riguardare gli oggetti del pensiero scientifico e, in generale, il pensiero osservativo e naturalistico. Ebbene, nell'arte - come in molti altri ambiti conoscitivi - la verità potrebbe rivestirsi di una gamma di significati molto più vasta di quella utilizzata solitamente. Lei mi chiedeva se, in questo caso, sia lecito parlare di "verità ultime". Personalmente non credo possa mai entrare in gioco qualcosa di simile alla verità ultima, se non come puro e semplice ideale regolativo generale della conoscenza. Così è stato per gli artisti che, pure, hanno tentato di esprimere qualcosa di simile a delle verità ultime: la Cappella Sistina, ad esempio, ci offre una qualche rappresentazione di che cosa sia una verità ultima. Anche nell'attività degli artisti può essere presente tale ideale regolativo, sebbene essi non attingano, o forse non vogliano attingere, a qualcosa di simile alla verità ultima.

Studentessa: Secondo Lei qual è stato il momento, nella storia umana, in cui si è avuta la quasi totale identificazione di una rappresentazione artistica con una verità considerabile come altamente rilevante dal punto di vista culturale? Mi riferisco soprattutto all'arte cristiana e alle rappresentazioni dell'Antico Testamento, le quali potrebbero essere considerate come un momento di fusione dell'arte con la verità perché esprimono le verità rivelate della fede cristiana.

E.G.: Ciò di cui Lei sta parlando non si è verificato soltanto nell'arte cristiana, ma probabilmente in tutta l'arte antica. C'è sempre stata una stretta connessione tra credenze mitologico-religiose ed un modo di vedere ed esprimere il mondo. Da questo punto di vista le manifestazioni artistiche, per un verso possono essere considerate delle forme espressive che rappresentano questo tipo di pensiero, per un altro verso, invece, come degli strumenti in grado di attivare lo stesso pensiero mitologico, magico, religioso e così via. Questa è solo una delle tante accezioni della nozione di verità. Ciò mette in luce come, anche in tal caso, l'arte possa riflettere tanto le concezioni verbali della conoscenza, quanto i significati più "emotivi" della cultura di cui è una espressione.

Studentessa: Secondo Lei è possibile sostenere che nell'arte contemporanea - così come nell'arte degli ultimi secoli - sia stata realizzata una sorta di scissione tra la vita concreta e la rappresentazione artistica?

E.G.: Non credo. Se ci soffermassimo ad analizzare il significato polisenso della parola "verità" e riuscissimo a intravedere in esso come quest'ultima possa comprendere il mondo in cui ci troviamo, dovremmo riconoscere che la stessa verità non potrà mai essere assente da qualsiasi manifestazione artistica. Un'analisi del genere andrebbe messa in atto non tanto per raggiungere una sorta di definizione del mondo situata all'interno di una qualche visione metafisica di esso - per la quale il mondo è stato fatto così come ci appare: così è strutturato e solo così lo possiamo conoscere - quanto per acquisire una reale comprensione del mondo stesso. Ritengo che l'arte più recente si sia sganciata dalle grandi verità religiose rivelate per manifestare altri tipi di verità, quali potrebbero essere, ad esempio, il carattere problematico del nostro vivere o il fatto che esistano diversi modi di prendere posizione nei riguardi delle "verità costituite". L'artista non può prescindere dalla ricerca di una verità intesa come continua comprensione del mondo, all'interno della quale vengono a concretizzarsi le possibilità della sua esperienza, le direzioni assunte di volta in volta da tale esperienza e alcuni aspetti politici, economici e ideologici della cultura concreta in cui egli si trova a operare.

Studente: Secondo Lei l'arte tende sempre a esprimere una verità oggettiva, oppure ritiene che essa rappresenti ciò che gli uomini vorrebbero fosse la realtà? Si pensi, per esempio, alla cinematografia.

E.G.: Credo sia molto giusto porre questo interrogativo. Personalmente preferirei sostituire il termine "verità" con la parola "comprensione". Quest'ultima, infatti, è data dal tentativo di cogliere un qualcosa che possa fungere da verità, allo scopo di comprendere effettivamente il mondo o, per lo meno, alcune sue condizioni di possibilità atte a organizzare una qualsiasi esperienza. Da questo punto di vista l'arte può essere considerata un'espressione velleitaria. Vorrei comunque sottolineare che tutte le attività dell'uomo potrebbero essere ritenute velleitarie, perché esse sono animate da una "volontà" di comprendere - per quanto possibile - la realtà che ci circonda. In questa prospettiva l'arte è senz'altro espressione della verità, ma attenzione: essa potrebbe rivelarsi anche una forma, assai sottile, di menzogna. La visione delle cose propria dell'arte che vi ho appena esposto è, inevitabilmente, una forma di rappresentazione del mondo che non corrisponde a un vero e proprio stato di cose, perché non è una proposizione scientifica. Facciamo subito un esempio: si pensi all'enunciato: "in questa scatola c'è un bottone". Si tratta di una proposizione vera? Aprendo la scatola e controllando la presenza del bottone possiamo verificare o falsificare la frase di cui sopra. Ebbene, nelle teorie e nelle concezioni filosofiche, ideologiche, religiose e così via non si danno mai esempi di proposizioni che possano essere verificate attraverso l'osservazione del "reale stato delle cose", in modo da controllare se esso corrisponda a "ciò che abbiamo detto". Inevitabilmente, quindi, la comprensione - sia filosofica, sia artistica - è in qualche modo costituita da un qualcosa in più rispetto ai dati bruti dell'esperienza osservativa. Essa è una sorta di costruzione e, in quanto tale, costituisce un tentativo per comprendere il mondo e per presentarlo in un'altra forma. Proprio per tale motivo l'arte può venire assimilata a una forma di "menzogna" - nel senso buono del termine - perché si rivela come la creazione di una struttura intellettuale che non coincide immediatamente con i semplici dati del mondo.

dossier 3Studentessa: In questo studio sono esposti numerosi quadri di Fontana facenti parte del ciclo chiamato Attese. Non potremmo affermare che l'artista, piuttosto che essere esposto alla tentazione di creare una sorta di menzogna, metta in atto una propria distorsione della realtà e di alcuni aspetti del mondo, costruita in base alla sua esperienza e alla sua sensibilità?

E.G.: Certamente; sarebbe comunque bene sottolineare che parlare di "distorsione" significa, in qualche modo, intendere "menzogna". Quest'ultimo termine risulta sicuramente molto più diretto e, in tal senso, Lei ha fatto bene a correggermi. Era mia intenzione usare la parola "menzogna" come una metafora per rimandare a un altro significato, e non già per riferirmi alla menzogna nel senso banale e quotidiano della parola. Tornando alla Sua domanda, potremmo chiederci: Fontana esprime se stesso, la propria sensibilità e le proprie emozioni nella sua arte? In qualche modo ciò è inevitabile: anche quando ci occupiamo delle nostre faccende quotidiane - di azioni che sembrano quanto mai lontane dalla creazione artistica - esprimiamo noi stessi. In tale agire concreto, però, ci relazioniamo con un solo agente, vale a dire con noi stessi colti nella nostra irripetibilità. Nessun altro potrebbe agire, sentire e pensare al nostro posto. Vediamo il mondo attraverso un filtro epistemico costituito dalla segmentazione di molti elementi diversi: il patrimonio genetico, una certa educazione familiare, una determinata cultura, e numerose altre variabili che risultano impossibili da definire secondo una precisa partizione. Lo stesso Fontana non può esimersi da tale stato di cose. Rimane comunque da sottolineare che, se in alcuni momenti della storia artistica l'elemento espressivo venisse posto in primo piano, allora il caso più tipico di questa predilezione risulterebbe essere quello della poesia lirica, di fronte alla quale ci porremmo come fruitori. Alla poesia lirica è stato dato questo nome perché essa è l'espressione di qualcosa che appartiene al poeta e che parla in prima persona. Non sempre, però, tale elemento si rivela decisivo per la nostra definizione di lirismo. Forse nella stessa espressione lirica è presente una componente che va al di là dell'io dell'autore e del fruitore: anche quando siamo totalmente chiusi in noi stessi, infatti, non possiamo fare a meno di esprimere qualcosa del mondo che ci circonda e che è altro da noi. Non saremmo nulla senza il rapporto con gli altri individui e con le cose a contatto con le quali viviamo costantemente. Certamente anche nell'arte di Fontana vi sono connotazioni espressive di questo tipo: i suoi celebri tagli sulla tela, ad esempio, corrispondono a uno stato d'animo che vede nel taglio - nell'effrazione - un elemento dell'artista e, contemporaneamente, del mondo che lo ha circondato. In tal caso il "mondo" è costituito sia dalle superfici intatte della tela, sia dai raffinati e crudeli tagli che vi sono stati fatti. Se dovessi affrontare in modo più approfondito quest'analisi, porrei l'accento soprattutto sul carattere significativo del mondo in cui ogni autore vive, un elemento maggiormente pertinente all'operazione artistica piuttosto che all'espressione dei singoli sentimenti di ognuno. In fondo potremmo tranquillamente affermare: a noi che importa sapere cosa abbia provato o cosa stia provando un grandissimo poeta come Giacomo Leopardi che così spesso, nelle sue liriche, parlò in prima persona? Potremmo impunemente disinteressarci a tale quesito se Leopardi non avesse scritto delle cose che riguardano il mondo di tutti, nella misura in cui questo mondo può accettare, facendolo proprio, il messaggio del poeta. In tal modo, nonostante non siamo Giacomo Leopardi, tramite le sue opere possiamo anche capire qualcosa di noi stessi.

Studentessa: Quindi Lei pensa si possa affermare che la grandezza di un artista risiede nella sua capacità di rappresentare i propri sentimenti in modo da poter offrire delle interpretazioni fruibili anche da molte altre persone?

E.G.: Sicuramente è una condizione necessaria che distingue l'artista espressivo dall'artista che si chiude in se stesso e che scrive racconti per metterli nel cassetto. In quest'ultimo caso, infatti, si tratta di espressive intimistiche e private che, in sé e per sé, non hanno nulla di male. C'è comunque da sottolineare che anche esse possiedono una tensione essenziale all'espressività intersoggettiva: non si scriverebbe mai una poesia se questa non si "autocandidasse" a divenire una pubblica espressione. Con molta probabilità essa non verrà mai pubblicata di fatto; ciononostante sarà concepita e posta in essere per uno scopo terribilmente simile a quello della pubblicazione. Paradossalmente, anche un diario intimo potrebbe essere scritto pensando a un possibile lettore, sebbene quest'ultimo sia totalmente assente. Com'è ovvio, non si tratterà mai un lettore attuale, di una persona in carne ed ossa: consisterà, più esattamente, di una figura che emerge nella nostra mente ogniqualvolta ci dedichiamo a operazioni di questo tipo. Non bisogna inoltre dimenticare che la parola stessa è una parola rivolta al mondo: noi parliamo perché il mondo stesso parla, e non proferiremmo nulla se non avessimo compreso le parole e il modo per rapportarci al loro universo. Si tratta di capacità che si apprendono attraverso l'educazione: se in un primo momento siamo caratterizzati dall'essere passivi ed esclusivamente ricettivi, in seguito - anche se viviamo nella più cupa solitudine - il linguaggio riesce a renderci dei soggetti socializzati.

Studente: Non ritiene possibile che un'arte ironica, incredibile, estrema e quanto mai distaccata dalla realtà possa portarci - nonostante i numerosi scherni e le numerose calunnie di cui potrebbe diventare oggetto - a una comprensione della realtà quanto mai vicina al vero?

E.G.: In un certo senso sì. In genere le opere apologetiche - quelle che tendono semplicemente a descrivere il mondo - sono le più insignificanti. Se in una opera d'arte viene posto in essere il contrasto con la realtà, allora si esplorano delle possibilità di gran lunga più interessanti. Non sempre il "parlare della realtà" coincide con l'essere aderenti al mondo: al contrario, spesso accade che la realtà possa essere colta meglio attraverso un rapporto fortemente contrastato con essa.

Studente: Ritengo che la realtà non possa essere ritenuta come un'entità sempre uguale a se stessa. Anche in ambito artistico si può incappare facilmente in un errore di tal genere, specialmente se l'arte viene intesa in maniera troppo rigida. Lei non pensa che l'arte dovrebbe perennemente oscillare tra due poli opposti, uno positivo e uno negativo, e che andrebbe di continuo messa a confronto con la realtà "vera", con quella che quotidianamente si evolve e che quotidianamente viviamo?

E.G.: Potrei risponderLe che la realtà di tutti i giorni non è la realtà vera: in tal caso, infatti, si tratta della quotidiana banalità e della normale routine. Un artista che sia realmente interessato alla ricerca del reale non si riferirà mai a questo livello di conoscenza, a meno che non elegga la "realtà del quotidiano" a suo prediletto oggetto di analisi. Anche in questo caso, però, l'autore finirà per opporsi alla quotidianità colta nella sua immediatezza, e tenterà di trovarci una propria peculiare prospettiva.

Studente: Mi sono espresso male: non volevo riferirmi al microcosmo umano e al nostro mondo soggettivo. Desideravo più che altro porre l'accento sulle modalità di interpretazione della realtà oggettiva: un'interpretazione distorta, infatti, non potrà mai avvicinarci a una reale comprensione del mondo.

E.G.: Non c'è dubbio. Sicuramente questo genere di conoscenza non potrà mai aiutarci a comprendere come stiano effettivamente le cose, ma sarà pur sempre un modo per approssimarsi alla realtà quotidiana colta nella sua immediata sostanza fattuale, per interpretarla e per presentarla in un'altra forma. In precedenza insistevo sul carattere inevitabilmente "menzognero" o "arbitrario" della verità dell'arte perché sono convinto che la nostra stessa vita e la nostra stessa cultura siano delle costruzioni arbitrarie, così come le idee che circolano e i giornali che leggiamo. Ovviamente, con ciò non voglio intendere che gli oggetti e i fenomeni da cui siamo circondati non siano significativi, anzi: il nostro mondo risulta significativo proprio grazie alle suddette costruzioni arbitrarie. Non si potrà mai tornare indietro fino a recuperare la semplicità, la spontaneità e l'immediatezza di un gattino, sebbene a volte sembri che i gattini siano più felici di noi. Siamo destinati a vivere all'interno di questa realtà, la quale è sia qualcosa di dato, sia qualcosa che può essere vissuto come dato se e soltanto se lo interpretiamo in quanto tale.

Studente: Platone fu forse il primo pensatore a parlare di arte come menzogna. Perché ne diede questa definizione? Quale utilità potrebbe avere tale interpretazione al giorno d'oggi? Perché, col passare dei secoli, l'arte è venuta ad assumere l'importanza che adesso le attribuiamo?

E.G.: A noi, odierni fruitori dell'arte, non serve necessariamente sapere cosa Platone pensasse al riguardo. A questo proposito bisognerebbe riflettere sul fatto che la condanna della poesia - e dell'arte in generale - messa in atto dal grande pensatore, nasceva da presupposti filosofici molto precisi. In Platone, infatti, è presente una distinzione tra il mondo della doxa - dell'opinione - e il mondo della verità e delle idee eterne, ovvero dell'aletheia. Si pensi all'esempio platonico del falegname e del pittore: quando il falegname costruisce un letto, non fa altro che imitare l'idea - ossia la forma - del letto "eterno"; se il pittore dipinge un letto, invece, egli si ritrova a imitare un'imitazione e a creare una doppia imitazione. Ecco perché, secondo Platone, il falegname è superiore al pittore.

Studente: In genere però, anche abbracciando questo approccio, non si può arrivare a sminuire eccessivamente l'arte?

E.G.: "In genere" direi di no. Vorrei comunque farLe notare che se Lei accettasse la distinzione platonica tra verità intelligibile e opinione sensibile, non potrebbe non giungere a una conclusione molto simile a quella di Platone.

Studente: Ma, allora, dobbiamo o non dobbiamo considerare l'arte come una forma di verità?

E.G.: L'arte è verità in quanto la stessa verità non esiste da sempre e non è più considerabile una pura "idea intelligibile". Martin Heidegger, in suo scritto famosissimo, ci dona una formidabile immagine al riguardo; egli scrive: "La verità non sta in uno scenario sempre illuminato. È tutta invisibile e la dobbiamo scoprire di volta in volta. Ogni volta vediamo un qualche aspetto della verità". Probabilmente, in questa frase Heidegger si riferisce allo stesso Platone, ed è proprio in tal senso che l'arte viene a coincidere con la verità. In precedenza ho insistito sull'opportunità di sostituire il termine "verità" con "comprensione". La comprensione, infatti, si rivela più interessante perché è costituita dallo sforzo di fornire un'interpretazione del mondo con cui avvicinarsi a una qualche forma di verità.

Studentessa: La letteratura potrebbe fornirci un valido esempio di come uno stesso tema possa essere interpretato in molti e diversi modi. Lei non crede che differenti interpretazioni della realtà e della verità si rivelino come positive per la comprensione stessa del mondo? Oppure crede che operazioni del genere siano fondamentalmente errate?

E.G.: Se, posto di fronte ad una situazione problematica, un individuo si sente in diritto di affermare: "Ognuno possiede la propria verità", egli sta sicuramente commettendo un grave errore. Il vero male, infatti, è riposto nella posizione relativistica, ovvero in un esito interpretativo che tende a non significare nulla. D'altra parte, però, esiste la possibilità di fornire interpretazioni diverse che mirino, nella loro totalità, a comprendere più approfonditamente il mondo. È possibile trovarvi qualcosa in comune proprio perché esse tendono a un unico scopo. Tali interpretazioni non saranno delle semplici opinioni disparate che si contrappongono l'una all'altra, ma degli elementi che ci spingono ad approfondire la conoscenza dello stesso oggetto o dello stesso fenomeno sotto diversi punti di vista. Bisogna tentare di comprendere in modo globale - se possibile - questa eterogeneità interpretativa.

Studentessa: Tali diverse sfaccettature di un'unica realtà possono realmente farci progredire verso la conoscenza?
E.G.: Esse vengono a costituire una ricchezza proprio grazie alla loro varietà. La verità, come direbbe Kant, è soltanto "un'idea regolativa", ossia "una idea che ci spia e che ci guida, ma che non è mai effettivamente raggiungibile". I differenti esisti interpretativi, infatti, seguono di pari passo il modello conoscitivo della verità regolativa e, nella loro eterogeneità, ci aiutano a comprendere meglio uno stesso ambito. Ciò è riscontrabile anche all'interno della letteratura: sebbene due autori differenti non possano mai essere contrapposti alla stessa stregua di due saggisti, nondimeno il loro diverso modo di approcciare i fenomeni esprimerà sempre dei punti di vista radicalmente distinti. La letteratura di due autori diversi, però, potrebbe farci comprendere meglio sia l'uno sia l'altro, permettendoci di scegliere in favore dell'uno piuttosto che dell'altro, o anche di optare per una terza alternativa.

Studente: Molto spesso - soprattutto in ambito scolastico - l'arte viene ridotta al "trionfo dell'irrazionalità umana". Lei concorda con questo punto di vista? In che modo si può affermare che l'arte coincide con l'irrazionalità?

E.G.: Sicuramente l'arte non coincide con l'irrazionalità. Se con "ragione" intendiamo quella capacità di comprensione che "per antonomasia" ci ha sempre connotati come uomini, allora l'arte non può essere ridotta alla sfera dell'irrazionalità. L'uomo esiste in quanto specie umana e in quanto cultura proprio perché possiede tale capacità di comprensione. Quest'ultima può articolarsi in varie forme di conoscenza, ovvero in differenti costruzioni tecnico-conoscitive capaci di sapersi adattare al contesto in cui di volta in volta vengono a trovarsi, e che costituiscono la struttura complessa di una società e di una cultura.

Studente: Quale posto potrebbe occupare il surrealismo - tanto pittorico, quanto cinematografico - all'interno di un discorso sulla razionalità dell'arte? È vero che nel cinema surrealista la mancanza di razionalità corrisponde a un profondo desiderio di non essere razionali?

E.G.: Anche nel surrealismo l'arte non coincide con l'irrazionalità. Bisogna comunque sottolineare che, in tutta la storia del pensiero, l'arte ha svolto una funzione molto importante, perché ci ha fatto comprendere come l'istanza suprema della mente umana - ovvero la razionalità - non abbia a sua volta una base razionale. Nel Settecento, questo fondamento venne di volta in volta chiamato sentimento, senso comune e così via, al fine di indicare un qualcosa che possiamo sentire piuttosto che capire razionalmente. La stessa scienza naturale non potrebbe progredire senza di esso: si tratta di una capacità che non è razionale, ma che tuttavia non coincide neppure con la totale irrazionalità. Possiamo quindi affermare che l'arte è irrazionale solo se teniamo sempre ben presente tale precisazione: essa è irrazionale perché si rifà a un principio che purtroppo - o meglio, per fortuna - non è identificabile con il "nudo intelletto", ovvero con la pura capacità raziocinativa, e che costituisce la base della creatività umana. Per quanto riguarda il surrealismo, bisogna comunque ammettere che con esso si è manifestato il ritorno a un qualche modello filosofico irrazionalistico, che ne ha anche costituito la fonte. La sua base irrazionale va in primo luogo ricercata nella psicoanalisi di Sigmund Freud: il surrealismo, infatti, volle mettere in pratica - ad esempio tramite la scrittura automatica - alcune tesi di Freud che riguardavano il rapporto analitico del paziente con l'analista. In questo senso la scrittura automatica era considerata come qualcosa che, essendo in grado di sganciarsi dal puro controllo intellettuale, poteva riuscire a esprimere le istanze più profonde dell'animo umano, ossia gli elementi relativi all'inconscio. Questa operazione potrebbe quasi essere definita come una sperimentazione scientifica condotta in ambito artistico. Freud non era particolarmente d'accordo con la poetica del surrealismo, perché vedeva in essa un'inevitabile tendenza a fraintendere la disciplina psicoanalitica. Ma, se da un punto di vista psicoanalitico queste soluzioni risultavano troppo semplicistiche, in ambito artistico esse hanno avuto molta importanza, soprattutto nel cinema. Nella poesia e nel cinema surrealisti, infatti, è presente una straordinaria espressività, orientata in special modo verso i nostri meccanismi inconsci, e in contrapposizione alla "superficialità" delle manifestazioni consce. I surrealisti partivano dall'innegabile presupposto che tali meccanismi ci potessero far capire qualcosa di noi stessi e che potessero manifestarsi tramite associazioni assurde e contraddittorie.

Studente: Come dovremmo interpretare il famoso slogan surrealista che recita:"Stracciare il tamburo della razionalità raziocinante"? Come una semplice negazione del valore della razionalità?

E.G.: Lo slogan da Lei citato rappresentava l'assunzione di una posizione limite e costituiva un modo eccessivo per indicare la nuova strada della ricerca artistica. Non bisogna scordare che il surrealismo - come tutte le avanguardie del nostro secolo - si contrapponeva alla tradizione che l'aveva immediatamente preceduto, ovvero ad una concezione aulica, razionale e fortemente strutturata dell'opera d'arte. Gli artisti del Novecento hanno sentito il bisogno di liberarsi da certi canoni tradizionali per poter scoprire qualcosa di realmente nuovo. Per la verità, la cosiddetta "arte dei musei" non sempre si manifestava tramite opere auliche, razionalistiche e organizzate, sebbene questa fosse l'immagine che i surrealisti amavano combattere. Fu proprio in base a tale presupposto - in parte vero e in parte falso - che i surrealisti elaborarono un'arte indirizzata verso la comprensione della verità che sta al di sotto - e mai al di là - della soglia vigile della ragione. Tentarono di portare avanti questa operazione per scoprire i meccanismi psicologici ed espressivi più interni all'uomo, per portare alla luce quegli elementi che più profondamente ci appartengono e che, nei limiti in cui li esprimiamo, possono forse farci comprendere qualcosa di noi stessi.

Studentessa: Se l'arte non è da considerarsi come qualcosa di assolutamente irrazionale, in che misura ragione e sentimento possono essere simultaneamente presenti in essa? Tra i due, qual è l'elemento che può prevalere nell'opera d'arte?

E.G.: Con la domanda: "A quali opere d'arte ci rivolgiamo?", operiamo una distinzione fondamentale sulla quale potrebbe essere costruita ed elencata una casistica molto ricca. Personalmente ritengo che un'opera d'arte compiuta non sia semplicemente il "sintomo" di un malessere causato da una data situazione culturale. Il nostro secolo, ad esempio, ha riscoperto l'arte di coloro che venivano chiamati pazzi: ci si è resi conto, infatti, che le opere di alcune persone definibili come border line o psicotiche costituiscono dei ragguardevoli esempi di arte. Si tratta comunque di casi abbastanza singolari, o meglio, di casi limite. Un'opera d'arte compiuta, invece, è in grado di vivere pienamente nella sua cultura ed è sempre in possesso di una qualche organizzazione interna, persino quando si presenta nella forma espressiva dell'effrazione più violenta. In tal senso la razionalità - ovvero il dominio dell'ordine, della forma e del senso complessivo dell'opera - dovrà in qualche modo risultare dominante. Rimangono comunque da analizzare gli elementi che tale organizzazione avrebbe la possibilità di veicolare: in essa potrebbe infatti celarsi un tumulto spaventoso, un turbinio di eventi e sensazioni non facile da quietare. In questo caso ci troveremmo di fronte ad artisti in cui l'aspetto "tumultuoso", contraddittorio e "irrazionale" giocherà un ruolo molto importante.

Studentessa: Lei ritiene che l'ispirazione di un'opera d'arte sia causata da un "ragionamento", oppure crede che essa sia riconducibile al puro impulso irrazionale dell'autore?

E.G.: A tale proposito non possiamo fornire nessuna indicazione certa, perché ognuno può partire da ciò che preferisce. Il "motore" dell'ispirazione - razionale o irrazionale che sia - non costituisce un punto di partenza da cui si possa dedurre tutto il resto. Si tratta di occasioni creative che possono scaturire tanto da un'esperienza personale, quanto da un pensiero, da un'idea astratta o da un sentimento provato in una certa situazione. Il punto focale è dato dal processo che si innesca in seguito a questa occasione. Com'è ovvio, la scintilla potrebbe essere provocata anche da un elemento puramente e semplicemente razionale, il quale, però, non dovrà mai ridursi al mero svolgimento sillogistico di una premessa. Al contrario, esso dovrà dare luogo a una serie di processi complessi nei quali potranno in seguito intervenire numerosi altri elementi.

Studente: Fino a ora si è soprattutto parlato di arti figurative e del loro rapporto con il mondo. Io, invece, vorrei chiederLe se anche la musica non possa essere considerata come un genuino tentativo di rappresentare la realtà, e vorrei capire in quali maniere ciò avvenga.

E.G.: Non credo sia molto facile sostenere che la musica costituisce un puro e semplice tentativo per rappresentare la realtà sic et simpliciter. Così come mi sembra difficile affermare - allo stesso modo in cui è stato fatto qualche decennio fa all'interno degli studi semiotici - che la musica sia un vero e proprio linguaggio. La stessa arte in genere non può essere considerata un linguaggio, perché essa non ha le caratteristiche essenziali di quest'ultimo, sebbene sia fortemente strutturata nella stessa maniera in cui lo sono i codici linguistici. Un teorico tedesco della fine del secolo scorso si oppose ad un genere musicale assai invalso tra i suoi contemporanei: il poema sinfonico, una composizione musicale che ambiva a rappresentare un'azione, una storia o una vicenda di vario tipo. Perché la critica musicale tedesca si schierò contro la moda del poema sinfonico? Perché la musica, secondo determinati schemi estetici, non può né rappresentare, né ripresentare i sentimenti. Quali sono, infatti, i sentimenti che la musica potrebbe esprimere? Chi di voi riuscirebbe a determinarli? Ascoltando un brano, ognuno può provare sentimenti differenti: la presenza o l'alternanza di tenerezza, gioia, rabbia e così via risultano largamente arbitrari. I fautori del poema sinfonico insistevano sul fatto che la musica attiva una dinamica interna in grado di muovere l'animo verso un processo espressivo conforme ad essa. Che ciò può essere interpretabile in termini di sentimento è assai opinabile, anche perché, in generale, si tratta di sensazioni strettamente private che ognuno può interpretare come vuole. Vi ho portato l'esempio del poema sinfonico per farvi capire che la musica non sarà mai qualcosa di realisticamente significativo allo stesso modo in cui lo è un linguaggio visivo come la pittura. Essa, quindi, non avrà in nessun modo a che fare con qualcosa di paragonabile all'imitazione dei sentimenti. A questo punto c'è da chiedersi se non si possa affermare che la musica non fa parte del nostro sistema culturale e non esprime abbastanza bene - nella forma di una struttura organizzata - alcuni aspetti caratteristici di questo sistema. Personalmente risponderei di no: le geometrie di Johann Sebastian Bach, o anche la creazione di costruzioni molto più complesse e dinamicamente più libere dell'ultimo Mozart e di Beethoven, esprimono qualcosa che è appartenuto al tempo di questi autori. Tentare di definire questo qualcosa e di descrivere la natura di tale espressione, però, è difficilissimo, e costituisce un argomento estremamente spinoso. Quando si parla di musica quasi tutti gli studiosi di estetica brancolano nel buio, perché non si riesce bene a capire cosa la musica sia. Tuttavia, essa è pur sempre qualcosa: è un'esperienza esteticamente intensa e storicamente determinata. Ogni epoca ama una certa musica, la quale, da questo punto di vista, risulta universale solo fino ad un certo punto.

Studente: Nel caso della musica abbiamo visto come i confini dell'arte non siano così semplici da distinguere. A questo punto desidererei chiederLe in che modo sia possibile dare una definizione dell'arte. Il falegname che produce il proprio manufatto, ad esempio, è da considerare un artista oppure no?

E.G.: Ritengo di sì. All'inizio della trasmissione ho esordito dicendo che, nonostante i molti anni di insegnamento, l'unica cosa che sono riuscito ad imparare sull'estetica è ciò che essa non è. Di conseguenza, ho anche imparato a conoscere ciò che l'arte non è: essa, infatti, è per definizione un oggetto indefinibile. Non esiste la categoria delle opere d'arte perché non esiste un criterio di appartenenza mediante il quale distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è. Sarebbe possibile elaborare una definizione dell'arte se, ad esempio, tutte le opere d'arte avessero in comune un tratto pertinente, una proprietà di cui si potesse predicare l'appartenenza a una determinata categoria. Quale dovrebbe essere - ammesso e non concesso che esista - tale tratto pertinente?

Studente: Questa posizione non rischia di allontanare l'analisi estetica dalla conoscenza della realtà artistica?

E.G.: Al contrario: essa può permettere allo sguardo dello studioso di inserirsi più profondamente nell'oggetto in questione, ossia nell'arte. È solo da poco prima del Settecento che determinati prodotti vengono definiti "arte" in senso stretto: infatti, il termine "arte" - in greco technè - significa attività produttiva in grado di rispettare e rispecchiare determinate regole. Questa definizione, quindi, comprende anche l'arte del falegname e del fabbro.

Studente: Ovvero delle attività tecniche.

E.G.: La tecnica è ciò che oggi chiamiamo "tecnica". Essendo l'arte indefinibile, essa non può certamente essere segregata in un luogo appartato. Quando ci si lascia andare ad affermazioni del tipo: "Qui si fa arte, mentre lì si fanno solo delle operazioni tecniche", si commette un grave errore, perché in realtà l'arte ha a che fare con tutte le tecniche. Parallelamente alla messa a punto di nuove tecniche, infatti, sorgono e si affermano nuove espressioni artistiche. Allo stesso modo, tramite una diversa considerazione o un nuovo utilizzo di tecniche già esistenti, possono esser creati dei manufatti che rappresentano qualcosa in più rispetto ai meri risultati utilitari di una semplice applicazione tecnica. Ceroli, ad esempio, è tanto uno scultore moderno, quanto un grande falegname.

dossier 4Studente: Quindi potremmo affermare che l'arte consiste essenzialmente nel comunicare qualcosa e che una delle sue principali caratteristiche è data proprio dalla comunicazione: quando essa viene a mancare l'arte risulta privata di qualcosa di costitutivo.

E.G.: L'arte è sicuramente una forma di comunicazione; essa, però, è anche in grado di veicolare - attraverso la propria espressione - un valore aggiunto che non esiste nel prodotto "comune". Possiamo quindi renderci conto di come l'arte non sia qualcosa di perfettamente definibile, ma piuttosto un certo prodotto che possiede delle determinate qualità in più - non immediatamente precisabili - le quali tradizionalmente indicano la presenza del "genio". Il "genio", secondo la tradizione, è proprio quel talento che interviene quando le regole dell'arte non riescono a giustificare pienamente il prodotto artistico in sé stesso. Nonostante io possa conoscere tutte le regole delle Belle Arti, se non possiedo questo "qualcosa in più" rimango solo un ottimo imitatore, o al massimo un buon pittore di maniera che fa bene il proprio lavoro. Il "qualcosa in più", infatti, non è riducibile all'obbedienza a certe regole, e il vero genio è in grado di introdurre questo valore aggiunto nella vita dell'arte senza desumerlo da norme preesistenti alla propria attività.

Studentessa: La peculiare non definibilità dell'arte - nonché la dissoluzione del concetto di forma e l'eliminazione delle barriere fittizie che sono state poste tra le varie arti - non potrebbero portarci ad affermare che una delle frontiere per il futuro dell'arte sia la categoria di arte totale?

E.G.: L'arte totale cui Lei si riferisce è una forma d'arte che, sostanzialmente, tiene conto delle arti già esistenti e che cerca di riunirle in una sintesi esplorativa tale da mantenere le loro peculiarità espressive. Francamente non so quali potrebbero essere le future frontiere di questo modello, perché non credo che la storia obbedisca a delle regole. La storia, infatti, è imprevedibile: è possibile che accadano degli eventi in grado di smentire completamente tutte le odierne previsioni, previsioni che in realtà non significano granché. Comunque, l'attuale tendenza sembra essere quella di considerare l'operazione artistica come un'operazione attuabile attraverso i mezzi, le tecniche e gli oggetti più svariati, talvolta con esiti insignificanti. Tale atteggiamento potrebbe permettere la nascita e lo sviluppo di operazioni con un rilievo immediatamente provocatorio, destinato a essere dimenticato; esiste anche, però, la possibilità che si possano mettere in pratica dei seri tentativi di rottura con il passato. In futuro i "confini" tra un'arte e un'altra saranno certamente diversi e, per adesso, le arti tradizionali stanno passando un brutto momento, tanto che potremmo addirittura arrivare a domandarci se esista ancora la pittura. Di sicuro c'è tuttora qualcuno che dipinge su tela con dei pennelli, anche se, attualmente, i veri artisti visivi sono soprattutto coloro che operano con materiali completamente diversi. Le "installazioni" - così, adesso, vengono chiamate le opere esposte nelle gallerie - sono in realtà un insieme di oggetti di diversa natura, delle più svariate provenienze e, qualche volta, di notevoli dimensioni. Certamente esse non costituiscono tanto un esempio di pittura, quanto - e soprattutto - un esempio di scultura.

Studentessa: Cosa pensa, invece, di quella tendenza minore della poesia che vede il ritorno di un modello di bellezza e di rigore formali e in cui, addirittura, si ricomincia a usare il verso metrico o la rima?

E.G.: Il nuovo utilizzo del verso è dato essenzialmente dal fatto che l'eccessiva libertà poetica e l'inesorabile liberazione da tutti i vincoli della lirica metrica tradizionale, ha finito per ridurre la poesia nella triste condizione di non sapere più cosa essa stessa fosse. Non sono così sicuro che si tratti di un riflusso. Non credendo nella logica della storia potrei benissimo ipotizzare una futura ricostituzione delle arti tradizionali; non ritengo, infatti, che un affresco debba necessariamente entrare in contraddizione con la civiltà informatica e telematica in cui viviamo. Naturalmente si spera che questo ipotetico affresco non rappresenti un'imitazione degli affreschi antichi, ma che proponga qualcosa di diverso. Nulla, dinanzi a noi, è precluso al caso della storia: il nostro futuro non è predeterminato. Tutto lascia pensare, infatti, che non accadrà ciò che ho appena preconizzato e che, probabilmente, vi sarà una vera e propria disseminazione di tecniche sperimentali. A questo riguardo, però, non è ancora stata detta l'ultima parola.

Studente: Nel Settecento, attraverso una ben determinata definizione, venne "inventato" il sistema classificatorio delle Belle Arti. Quanto, da allora, il pensiero occidentale ha mutato la sua visione dell'arte?

E.G.: Nel Settecento c'era la forte convinzione che l'arte - considerata già da allora come non definibile - si manifestasse soprattutto attraverso il perfetto utilizzo di determinate tecniche e che potesse essere vista come una questione di fatto. Nella "terza Critica"di Kant - la Critica del Giudizio - il filosofo di Königsberg si sofferma sulle diverse attività che possono produrre dei bei manufatti e, in un bellissimo passaggio, sostiene che:" Tuttavia (queste attività) non sono considerate arti belle". Per "arti belle", dunque, si intende la musica, la scultura, la poesia e "due gallerie di quadri". È interessante notare come nel brano kantiano non si parli tanto di pittura in senso astratto, quanto di "gallerie di quadri", ossia di determinati oggetti materiali. È in essi che, in generale, possiamo trovare ciò che risulta appellabile come un'opera "dell'arte bella": è un fatto culturale. Allora non vi erano altre attività che, da un punto di vista estetico, producessero opere degne di considerazione, anche se esistevano ulteriori forme d'arte che potevano essere poste a metà strada tra ciò che in quel secolo si chiamava "arte meccanica" e la suddetta "arte bella". Si trattava di un orizzonte culturale largamente condiviso. Anche allora, comunque, si creava arte attraverso mezzi differenti e si cercavano delle strade alternative per manifestare ciò che oggi chiameremmo arte. Ai giorni nostri, invece, si preferiscono altre vie. Vi vorrei però far notare che finora abbiamo parlato pochissimo di letteratura; eppure la letteratura è una forma d'arte espressivamente molto vicina al problema della verità.

Studente: Non di rado in campo artistico si parla di progresso. Con questa espressione si vuole affermare che l'arte tende a migliorarsi nel corso del tempo e delle vicende umane. Si tratta di un'ottica che potrebbe essere definita come "finalistica". Lei cosa ne pensa?

E.G.: Sebbene talvolta qualcuno si lasci sfuggire questa espressione, risulta abbastanza chiaro come dal Settecento in poi non si possa parlare di progresso artistico allo stesso modo in cui si parla del progresso scientifico. Per quanto riguarda la scienza, infatti, è innegabile come la tendenza a migliorare le proprie conoscenze tipica dell'uomo abbia portato a un sempre migliore controllo sulla realtà circostante, anche se il nostro secolo ha messo in dubbio questa posizione. Relativamente all'arte, invece, vi è la convinzione che i massimi risultati siano stati raggiunti nell'antichità e che questo limite massimo sia definibile come "arte classica". Non potendo oltrepassare il modello antico, quindi, il progresso non viene visto come un fenomeno caratteristico dell'arte. Sicuramente l'idea di progresso artistico può emergere dalle pagine di certi manuali, soprattutto tramite quelle supposizioni che vedono nell'arte sperimentale un superamento della tradizione. A queste posizioni, però, si potrebbe obiettare che il superamento di una tradizione non corrisponde necessariamente a un progresso: quando si verifica questo genere di superamenti, infatti, si è in presenza della normale dialettica che tende a instaurarsi tra un'arte tradizionale e le nuove esigenze espressive. In certi momenti culturali e in certi periodi storici - soprattutto in quelli densi di contraddizioni come l'inizio del nostro secolo - è possibile che l'arte tradizionale non risponda più a certe esigenze e che, per questo, risulti oppressiva. È proprio in tali frangenti che le differenti spinte devono lottare per poter emergere e per rendere possibile la nascita di qualcosa di diverso. Eventi del genere, però, non possono essere automaticamente elevati al rango di progresso: può semplicemente trattarsi di un'altra cosa.

Studentessa: Abbiamo parlato di musica, di pittura e delle varie tecniche artistiche - compresa quella del falegname - ma abbiamo dimenticato il teatro, che, in un certo qual senso, può essere visto come la forma artistica più illusoria ed imitativa; non a caso esso è stato chiamato la copia della realtà. A mio parere, però, dietro la pregevole arte della finzione, tipica delle rappresentazioni teatrali, può celarsi un qualcosa di più reale della realtà stessa.

E.G.: Certamente il teatro non è una copia della realtà, perché nessuna attività strettamente rappresentativa può essere definita una semplice copia della realtà. Ogni rappresentazione si risolve sempre in un'interpretazione della realtà e, in quanto tale, non deve necessariamente diventarne una copia. Perfino il teatro realistico, sviluppatosi tra Ottocento e Novecento, non si basava sull'idea di ricreare una copia della realtà. Il teatro può essere più "vero" della realtà ? E se lo fosse, lo sarebbe solo perché sul palcoscenico ci sono attori in carne ed ossa? Francamente non so dirLe se possa essere definito come più "vero", Le posso semplicemente rispondere che esso rappresenta un'altra cosa: una forma artistica che si esprime con mezzi diversi. Perché il romanzo dovrebbe essere meno fedele alla verità dell'opera teatrale? Si tratta solo di differenti mezzi espressivi. Probabilmente il teatro permette di comunicare dei contenuti che il romanzo non consente di esprimere, così come il cinema veicola degli elementi che il teatro non riesce a mettere in scena. Ma è vero anche l'opposto: il teatro può trasmettere contenuti che il cinema non è in grado di comunicare; un lungo soliloquio, ad esempio, risulta possibile in teatro ma può diventare letale all'interno di un film. Non mancano, com'è ovvio, le eccezioni: Jean Luc Godard e altri, ad esempio, introdussero nei loro film dei lunghi soliloqui come violenta reazione nei confronti del cinema tradizionale. A questo possiamo aggiungere che il cinema ha a che fare con una realtà che, per quanto ricostruita dinamicamente, è pur sempre una realtà fotografata. Ecco perché, ad esempio, nel cinema sussiste una vera e propria dissipazione del senso del racconto e degli oggetti circostanti: il discorso filmico può acquistare diversi significati interiori attraverso la visione del contesto in cui l'attore sta interpretando la propria parte. Nel teatro ciò avviene molto di meno perché la scena può aiutare - in modo a volte inimitabile - a concentrare l'attenzione del pubblico sull'attore come tale. L'autore e il regista concepiscono la scena teatrale in modo che l'attore non ne risulti dissipato: egli vi deve trovare quel luogo definitivo in cui la sua parola possa acquisire un valore ultimativo. Si tratta dell'esatto opposto di ciò che accade nel cinema. Possiamo allora chiederci se il primo dei due generi artistici sia più reale dell'altro? A modo loro sono tutti e due sia reali sia irreali, perché ambedue sono costruzioni e interpretazioni del mondo che, sebbene realizzate attraverso mezzi tecnici differenti, possono offrire delle possibilità espressive.

Studente: Giunti a questo punto possiamo fare un bilancio della navigazione in Internet di oggi. Sulla rete delle reti l'arte è abbastanza rappresentata e vi ho trovato numerosi siti interessanti; in uno di loro è messa on line una splendida fotografia della Cappella Sistina. Sono anche riuscito a trovare delle pagine di Estetica molto ben fatte. In linea di massima ho notato che in questi siti viene maggiormente presentata l'arte antica che non quella moderna. Ho anche tentato di scovare dei siti riguardanti l'arte moderna e le tendenze contemporanee dell'arte astratta, ma ne ho trovati pochissimi esempi. Devo dire che tutto ciò mi è risultato alquanto strano, perché Internet è, per antonomasia, il luogo maggiormente aperto al futuro.

E.G.: Ha trovato alcuni siti filosofici?

Studente: Di siti filosofici interessanti ce ne sono molti di meno.

E.G.: Ci avviamo alla conclusione del nostro dibattito. Vi ringrazio perché avete fatto delle domande molto intelligenti e molto carine che mi hanno dato la possibilità di spiegare - nei limiti delle mie possibilità - quello che avevo in mente di dirvi. Perché non vi occupate un po' più di estetica? Volete un consiglio? Studiatela!

Publicado en: Quaderni di estetica, Roma: La Sapienza, n.1, 1999